Il guaio è serio ed è grosso. Il governo non ha praticamente alcuna possibilità di realizzare entro l'anno tutti i 55 obiettivi almeno sulla carta tassativi per accedere alla prossima tranche del Pnrr e l'anno prossimo, quando si tratterà non di riformare e progettare ma di edificare sarà peggio. Sarebbe stato uno scoglio molto pericoloso comunque, essendo l'incapacità dell'Italia di spendere il fondi europei comprovata dai numerosi fallimenti, le tante volte nelle quali i finanziamenti Ue sono rimasti nel cassetto pronti per la restituzione dato che il governo di turno non era riuscito a investirlo. Ora però è peggio perché la crisi e l'impennata del prezzo delle materie prime rendono di fatto obsoleti progetti messi a punto prima della tempesta.

Non ha affatto torto Giorgia Meloni quando, sia pur con massima felpatezza e toni ben diversi da quelli che preferirebbero adottare alcuni dei suoi ministri, addossa le responsabilità del ritardo al governo che ha preceduto il suo: «È un dato incontrovertibile che dei 55 obiettivi entro fine anno a noi ne sono stati lasciati 30». La realtà è che il ritardo era noto ovunque nei palazzi della politica da prima che la crisi esplodesse in luglio. Non la si può criticare neppure se tenta di forzare la mano all'Europa sostenendo che «il Next Generation Eu non è più sufficiente perché non poteva tenere in considerazione l'impatto della guerra» o se insiste, sbattendo sulle rigidità di Bruxelles e Berlino, per rimettere mano al Pnrr essendo la situazione radicalmente cambiata rispetto a quando fu progettato.

Ma le ragioni di Giorgia non mutano il quadro: l'Italia non si presenterà con i compiti fatti per intero all'appuntamento con la prossima tranche del Ngeu. Sarebbe così anche se al suo posto ci fosse ancora Mario Draghi. Ma l'ex presidente della Bce poteva far pesare sul piatto della bilancia un capitale di credibilità personale del quale la nuova premier non può disporre, o almeno non ancora. Dunque dovrà sperare che la Ue chiuda tutti e due gli occhi e comunque il fattaccio non aiuterà certo Roma nella campagna per un nuovo intervento europeo sul modello di quelli messi in campo contro il Covid e neppure ammorbidirà Bruxelles sulla revisione del Pnrr. Si spiega anche così, forse soprattutto così la disponibilità palesata domenica ad abbassare, non si sa di quanto, il tetto per l'obbligo di accettare i pagamenti Pos. È una misura in controtendenza rispetto alle indicazioni della Ue ed è probabile che l'inquilina di palazzo Chigi stia valutando l'opportunità di irritare Bruxelles proprio quando sarebbe necessaria un'opposta attitudine per passare le rapide della valutazione dello stato del Pnrr.

Solo che quell'accenno alla possibilità di una mezza retromarcia non basterà. Ieri Bankitalia ha picchiato duro e ha preso di mira diversi aspetti della manovra. Il tetto per l'obbligo di pagamento digitale, nella relazione di fronte alle commissioni Bilancio congiunte delle Camere di Fabrizio Balassone, è ancora il meno. Il capo del servizio struttura economica di Bankitalia ha attaccato frontalmente l'innalzamento del tetto del contante, che elimina «un ostacolo per diverse forme di criminalità ed evasione» ma soprattutto ha bocciato senza appello la Flat Tax per i lavoratori autonomi che «in un periodo di inflazione elevata comporta una ulteriore penalizzazione per chi è soggetto a tassazione progressiva». La banca centrale, insomma, bersaglia il pochissimo del proprio programma che la destra ha cercato di infilare nella manovra.

Le esigenze della maggioranza, o almeno di Lega e Fi, vanno però in direzione opposta rispetto a quella di una premier la cui priorità è oggi non litigare con la Ue. La Lega deve provare almeno a irrobustire le misure minime che è riuscita a piazzare nella manovra e probabilmente un Salvini traballante non potrebbe accettare nuovi passi indietro, senza contare l'irritazione degli azionisti di maggioranza del Carroccio, i governatori del nord, per la frenata della premier sull'autonomia differenziata. Forza Italia è decisa a ottenere emendamenti che richiederebbero coperture ben maggiori dei 400 mln di euro a disposizione di governo nel passaggio parlamentare della manovra. La premier insomma è tra due fuochi, quello di Bruxelles e di Bankitalia, quello degli alleati dall'altro e nonostante la forza di cui dispone in una maggioranza dominata dal suo partito uscire dallo stretto sarà nelle prossime settimane impresa ardua.