Recep Tayyip Erdogan ha avuto un malore durante un'intervista, un sintomo di stress e di debolezza dopo venti anni di potere incontrastato e a poco più di due settimane dalle elezioni del 14 maggio che potrebbero, per la prima volta, vederlo in difficoltà se e vero che il suo sfidante scelto dal blocco delle opposizioni, Kemal Kilicdaroglu, viene dato in leggero vantaggio dai sondaggisti.

Ma nonostante le difficoltà Erdogan non ha certo perso il gusto del piglio autoritario: il 25 aprile il rais di Ankara ha infatti ordinato una massiccia retata di oppositori curdi, legati, secondo la polizia, al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), fuorilegge da quando, nel 1984, ha iniziato una lotta per l'indipendenza dalla Turchia. Nel mirino, come quasi sempre, è finito l’HDP (Partito democratico del popolo) il cui leader Selattin Demirtas è già in carcere dal 2016. La repressione stavolta ha colpito principalmente la città di Diyarbakir e altre 21 province.

Nel corso di una maxi operazione le forze speciali hanno portato in carcere almeno centoventi persone. Dietro le sbarre sono finiti politici, avvocati e giornalisti. Per tutti il sospetto, e la certezza per il regime, che finanzino il PKK oltre a reclutare membri o impegnarsi nella propaganda per conto del gruppo. Tayip Temel, vice leader dell’HDP, ha collegato direttamente gli arresti agli sforzi di Erdogan per assicurarsi un terzo mandato come presidente. Secondo Temel infatti: «Alla vigilia delle elezioni, il governo ha fatto ricorso ancora una volta alle detenzioni per paura di perdere il potere». Inoltre, come riferito dalla Media and Law Studies Association (MLSA), un'organizzazione no-profit turca, anche diversi responsabili di ONG sono tra coloro che hanno avuto le loro case perquisite nelle prime ore del mattino.

Ora si teme che il numero degli arrestati possa ulteriormente crescere, lo ha confermato l'ordine degli avvocati di Diyarbakir secondo il quale si potrebbe raggiungere la cifra di centocinquanta (segno che probabilmente qualcuno è riuscito a mettersi in salvo o nascondersi). E proprio la sorte toccata a molti legali è quella che desta maggiore preoccupazione. Gli avvocati detenuti infatti, solo a Diyarbakir, sarebbero almeno una ventina insieme a cinque giornalisti, tre attori e un politico.

Erdogan sta giocando ancora una volta la carta del nazionalismo e della lotta al PKK operando un giro di vite sulla formazione filo curda che rappresenta il secondo maggior partito della Turchia, e viene accreditato di un buon risultato elettorale, anche se non fa parte dello schieramente che sostiene lo sfidante Kilicdaroglu. Tuttavia l'HDP non presenterà un suo candidato proprio per favorire la sconfitta di Erdogan. Quest'ultimo comunque ha subito colpi significativi negli ultimi anni a causa di un'economia in difficoltà e per le evidenti accuse di autoritarismo. Il terremoto dello scorso febbraio che ha provocato almeno cinquantamila morti ha ancora di più eroso il suo sostegno a causa delle polemiche seguite ai crolli degli edifici e allo scandalo delle licenze edilizie concesse senza che venissero rispettati gli standard di sicurezza per le costruzioni.

La repressione in atto dunque potrebbe essere un ultimo colpo di coda di un presidente che non vuole abbandonare il potere. Da un lato il segnale che nessun trapasso di governo sarà indolore, dall'altro, forse, un elemento di debolezza e paura. Forse per questo l’HDP ha rilasciato un commento che va in questa direzione: «Non vi salverete dalla sconfitta». Parole che anche da questa parte della barricata nascondono però una forte inquietudine. Sulla formazione filo curda infatti pende un giudizio che dovrà essere pronunciato dalla Corte Costituzionale e che potrebbe portare allo scioglimento del partito perché considerato fiancheggiatore di un gruppo definito terrorista.