di FRANCESCO PALAZZO*

Si legge in una notizia d’agenzia del 29 novembre che il ministro dell’Interno, onorevole Matteo Salvini, si accingerebbe a presentare un disegno di legge per inasprire le pene contro gli spacciatori di stupefacenti, criminali da equiparare secondo il ministro agli assassini. C’era in effetti da stupirsi che questo reato e questi delinquenti non fossero stati ancora inclusi nella lunga lista di quelli per cui il governo “del cambiamento” ha suonato la grancassa dell’inasprimento sanzionatorio come panacea di tutti i mali. In ciò, ad onor del vero, inserendosi in una linea di politica penale non nuova, ancorché percorsa ora con più convinta determinazione e maggiore clamore. Nel “contratto di governo” si preannunciava già il rafforzamento repressivo per molti reati: si va dalla violenza sessuale («è prioritario l’inasprimento delle pene per la violenza sessuale, con l’introduzione di nuove aggravanti ed aumenti di pena quando la vittima è un soggetto vulnerabile ovvero quando le condotte siano particolarmente gravi») a taluni reati contro il patrimonio «particolarmente odiosi come il furto in abitazione, il furto aggravato, il furto con strappo, la rapina e la truffa agli anziani». Ed ancora, oltre al solito scambio politico mafioso, sono apparsi meritevoli di un rafforzamento repressivo anche i reati ambientali e quelli nei confronti degli animali, «garantendo maggiore tutela rispetto a fatti gravi ancora non adeguatamente perseguiti e un maggiore contrasto al bracconaggio». Indispensabile è poi considerato introdurre misure repressive per i reati di cyber bullismo. Nelle sue dichiarazioni programmatiche al Parlamento il presidente del Consiglio ha avuto modo di sottolineare l’esigenza di un inasprimento sanzionatorio, sia penale che amministrativo, per gli illeciti tributari. Il decreto legge sulla sicurezza del 4 ottobre 2018, n. 113 ha rimodulato al rialzo il trattamento sanzionatorio di due reati “urbani” come l’invasione di terreni ed edifici e il blocco stradale.

Come poteva mancare il reato di spaccio di stupefacenti? Stolto sarebbe lasciarsi sfuggire questa ghiotta occasione per fare ancora una volta la voce grossa, e perdere invece tempo ad interrogarsi, nel riflessivo impegno di una politica seria e lungimirante, sulle ragioni di una domanda ostinatamente sempre florida.

A parte i prevedibili effetti che questo espansionismo repressivo, congiuntamente alla mancata riforma delle misure alternative e alla drastica riduzione delle ipotesi di permesso di soggiorno, produrrà sulla popolazione carceraria già in costante crescita, non c’è dubbio che l’inasprimento sanzionatorio sta mutando il vólto del sistema penale in senso ormai marcatamente autoritario. E questa torsione autoritaria non è una connotazione estrinseca, legata al semplice aspetto quantitativo della risposta sanzionatoria che sale. C’è molto di più e molto più profondo.

L’inasprimento repressivo non solo urta col principio di proporzione costituzionalmente imposto e ribadito in sede europea, ma produce l’effetto di uniformare tendenzialmente verso l’alto le pene di una gran parte dei reati, e più precisamente di quelli che richiamano – volta per volta, giorno per giorno – l’attenzione del legislatore. Ne è un buon esempio la materia della corruzione, le cui fattispecie dopo il provvedimento “spazzacorrotti” esibiranno dei massimi edittali tutti attestati intorno ai dieci anni. Ebbene, questa tendenza al livellamento verso l’alto rivela un’anima intrinsecamente autoritaria per ragioni profonde che, lungi dall’essere casuali, sono connaturate ad una visione del rapporto tra l’individuo e lo Stato fortemente sbilanciato a sfavore del primo. La storia mostra chiaramente come lo Stato assoluto tende ad un’uniformità sanzionatoria attestata sulle massime pene, e non per caso. L’assolutismo politico e l’autoritarismo penale che ne è figlio tendono infatti a considerare i singoli reati non tanto nel loro proprio e specifico disvalore empirico, fattuale e criminologico, quanto piuttosto nel loro significato “politico” di trasgressione e inosservanza dell’autorità sovrana: per il solo fatto di porsi contro la volontà statale il reo merita una pena che non può che essere massima e pressoché eguale per tutti i reati. Certo, oggi la trasgressione non è concepita tanto in chiave di inosservanza della volontà sovrana e di violazione delle prerogative regie. Oggi, quasi più pericolosamente, tutta una larga fetta di reati viene accomunata ed equiparata per l’attentato alla sicurezza del popolo che essi producono, per il (ri) sentimento di paura che suscitano nel popolo di cui si fa interprete e portavoce un capo carismatico o leader politico. Ma il risultato è lo stesso: la corsa senza freni all’inasprimento sanzionatorio e il tendenziale livellamento verso l’alto delle pene, a tutto discapito del principio di proporzione. C’è dunque una “sostanza” autoritaria in questo fenomeno, che è ben lontana dal vólto costituzionale del nostro diritto penale. E che è altrettanto lontana da quei tratti di proporzione, di misura, di equilibrio che non possono non essere proprî anche dello ius terribile e senza dei quali quest’ultimo cessa di essere ius per rimanere solo terribile.

* Professore di Diritto penale e Criminologia università di Firenze