di Alessandro Parrotta* La diffusione del covid-19 ha costretto tutto il Paese ad adattarsi in brevissimo tempo alle misure estreme adottate dal governo per limitare la profusione del contagio: fino ad appena poche ore fa tutti i cittadini sono sottoposti al cosiddetto lockdown, non potendo lasciare le proprie abitazioni se non per motivi di motivata necessità e di lavoro. Proprio dal punto di vista lavorativo, le misure restrittive, oltre a incidere fortemente sulle attività quotidiane di tutti i cittadini, hanno costretto aziende, enti pubblici e organizzazioni professionali in generale a confrontarsi con lo smart working, costringendoli a compiere – senza avere, in gran parte tutt’ora, alternative – quel processo di digitalizzazione di cui da anni si parla, soprattutto nell’ambito della pubblica amministrazione, e che da tempo era oggetto di continui rinvii. Ancora per molte settimane, una parte delle attività continuerà ad obbedire allo schema imposto nelle scorse settimane: evitare spostamenti e usare gli strumenti che abbiamo a disposizione per interloquire, sostituendo alle sessioni fisiche le video conferenze su skype, teams e via discorrendo. Vi sono settori lavorativi, tuttavia, nei quali simili modalità di lavoro e di interazione a distanza mal si conciliano con prerogative tipiche di determinate professioni e possono, quindi, se non vengono dettagliatamente disciplinate, condurre a gravi conseguenze, soprattutto alla luce dell’attuale decretazione d’urgenza, in occorrenza della quale alcune norme rischiano di passare inosservate, andando, però, a sconvolgere irrimediabilmente determinate attività. Il rischio è quello, insomma, di strumentalizzare la crisi per varare riforme di certa incostituzionalità. Da questo punto di vista, uno dei settori su cui è bene porre la lente di ingrandimento – come fortunatamente, peraltro, sembra essere avvenuto - è rappresentato dal processo penale, la cui incontrollata smaterializzazione e digitalizzazione porterebbe con sé irreparabili lesioni dei diritti delle persone coinvolte. Sul punto, risulta opportuno specificare che, sempre nell’ottica di evitare di creare assembramenti di persone, il governo ha disposto la sospensione dei procedimenti giudiziari fino all’11 maggio. Tuttavia, nel settore penale alcuni procedimenti, nell’ambito dei quali gli imputati sono ristretti, alcune udienze hanno continuato a essere celebrate, ma da remoto. Ed è così che, a seconda dello strumento a disposizione dell’ufficio giudiziario e della casa circondariale, nelle ultime settimane l’udienza penale, i cui risvolti legati alla presenza di dati sensibili sono enormi, è stata celebrata, la maggior parte delle volte, su skype. Le condivisibili preoccupazioni degli avvocati penalisti legate a una simile evenienza, che vengono acuite in ragione dell’iniziale decisione di ampliare – in sede di conversione dei decreti legge che si sono susseguiti sul punto – ulteriormente le ipotesi delle cosiddette udienze virtuali, possono essere ricondotte a un duplice ordine di ragioni. Le associazioni hanno sollevato una questione di privacy e tutela dei dati in ordine alle piattaforme utilizzate, che sono, come detto, Skype e Teams, entrambe riconducibili alla società Microsoft Corporation: in sintesi, l’Unione Camere penali ha richiesto al Garante della privacy di verificare le “caratteristiche delle piattaforme indicate dalla Dgsia, nonché l’opportunità della scelta di un fornitore del servizio in questione stabilito negli Usa e, come tale, soggetto tra l’altro all’applicazione delle norme del Cloud Act (che come noto attribuisce alle autorità statunitensi di contrasto un ampio potere acquisitivo di dati e informazioni)”. La richiesta – legittima -  è stata fatta propria dal Garante che ha immediatamente chiesto e ottenuto chiarimenti sul punto dal guardasigilli Bonafede. Come anticipato, in un processo penale vengono trattati dati di natura assolutamente privata, ed è quindi opportuno avere una tutela piena ed effettiva in ordine agli strumenti utilizzati, al fine di evitare una violazione non solo della privacy dei cittadini ma anche dei principi costituzionali. Nel processo – telematico – civile è stata istituita una piattaforma ad hoc dove poter depositare i vari atti processuali: si è, quindi, deciso di utilizzare uno strumento slegato da qualsivoglia società privata, che garantisce il rispetto e la tutela dei dati ivi contenuti. In secondo luogo, le criticità sollevate dagli avvocati penalisti sono collegate all’opportunità di sostituire l’udienza fisica con quella virtuale: è noto, infatti, che, nel processo penale a differenza di quello civile, la difesa e l’oratoria dell’avvocato – che tutt’oggi ancora, unico tra i vari professionisti della società civile, indossa la toga nell’aula di giustizia – rivestano un ruolo preponderante nell’ottica di un pieno ed efficace rispetto del principio del contraddittorio, così come garantito dall’articolo 111 della Costituzione. In particolare, all’avvocato, ma anche al giudice e al pubblico ministero, non può essere preclusa la possibilità di interagire fisicamente con le parti processuali, evenienza che per ovvie ragioni sarebbe fortemente limitata in seno a un’udienza virtuale. Concludendo, come in ogni situazione, in medio stat virtus: è, quindi, possibile, a parere di chi scrive, poter pensare di introdurre, gradualmente e con raziocinio, e non con una decretazione di emergenza, attesi gli interessi coinvolti, nel processo penale alcune modalità telematiche, come il deposito degli atti, mediante una piattaforma istituzionale e garantita. Sul versante delle celebrazioni virtuali delle udienze, chi scrive ritiene che nell’ottica dell’ingresso del Paese nella cosiddetta fase due, in cui gli spostamenti continuano a essere contingentati, per evitare un totale arresto del sistema giustizia, non si sarebbe potuto far altro che limitare, come è avvenuto, l’evenienza della celebrazione virtuale – sempre, è bene precisare, su canali istituzionali e controllati – ad alcune tipologie di udienze. E infatti il decreto 28 del 30 aprile 2020 ha lasciato la possibilità di tenere “da remoto”, ad esempio, le cosiddette udienze filtro, ove l’attività difensiva si esaurisce nella richiesta di mezzi istruttori o di riti alternativi, facendo salve invece le udienze in cui il principio del contraddittorio deve continuare a essere garantito nella maniera più piena ed efficace possibile, senza alcun limite. Se l’obiettivo è quello di evitare i contatti, perché non smaterializzare gli incombenti di cancelleria: deposito liste testi, memorie e copia atti post chiusura indagini? Peraltro, occorre anche osservare come sul punto si sia iniziata ad esprimere anche la giurisprudenza, ponendosi in linea con quanto sostenuto con forza dagli avvocati penalisti: è, infatti, di questi giorni l’ordinanza emessa dal Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, Sez. VI, ord. 16 aprile 2020, dep. 21 aprile 2020), la cui Sesta Sezione, ancorandosi ai principi fondamentali brevemente su richiamati, ha ribadito in maniera ferma il principio secondo cui il cosiddetto “contraddittorio cartolare coatto” – soprattutto in materia penale - non può essere ritenuto conforme ai principi costituzionali. In particolare, l’organo supremo amministrativo ha sancito che tale modalità di esecuzione dei processi rappresenterebbe ?«una deviazione irragionevole rispetto allo “statuto” di rango costituzionale che si esprime nei principi del giusto processo e del contraddittorio tra le parti?». L’udienza penale vive nell’aula e non si può rimettere a uno scambio di videate on-line: il difensore deve guardare il Giudice durante la propria attività di assistenza; il Giudice deve guardare l’imputato anche al fine di valutare il suo comportamento processuale, nel senso più ampio e vivo del termine. *direttore dell’Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici