Se c’è un punto su cui governisti e radicali del Movimento 5 Stelle concordano è questo: Giuseppe Conte non ha alcuna intenzione di rompere con Mario Draghi e i toni forti fanno solo parte di una sceneggiata. Con giudizi differenti le due fazioni hanno maturato un convincimento: l’avvocato si è messo ancora una volta in un mare di guai, riuscendo a scontentare tutti. L’ala moderata, quella che non ha seguito Luigi Di Maio solo perché i posti disponibili nella piccola scialuppa costruita dal ministro degli Esteri erano già esauriti, non ne può più di quelle che definisce «pagliacciate» del leader. L’ala ortodossa, quella che sogna di tornare subito all’opposizione, è esausta dei continui tira e molla dell’ex premier.

«Alla fine Draghi gli darà un contentino su Reddito di cittadinanza e salario minimo e lo farà tornare nei ranghi», è il convincimento nervoso dei duri e puri, costretti a convenire con Alessandro Di Battista, che nel pomeriggio consegna ai social la sua battuta al vetriolo: «E anche oggi il Movimento 5 Stelle esce dal governo domani». È la «prima volta» che l’ex grillino attacca Conte in pubblico, fanno notare con un pizzico di preoccupazione gli ortodossi.

Il problema è che non si può sempre minacciare di dar fuoco al fienile e fermarsi puntualmente un istante prima di sfregare il fiammifero. Perché può succedere che qualcuno la volta successiva porti da casa l’accendino per portare a termine il lavoro. Ed è quello che potrebbe accadere con la fiducia al dl Aiuti. Perché se alla Camera sarà possibile aggirare l’ostacolo, distinguendo tra voto di fiducia e voto sul provvedimento, al Senato, dove la pattuglia di anti draghiani è più corposa, questo escamotage non è consentito. L’incidente a quel punto potrebbe essere inevitabile e l’avvocato rischia di essere messo all’angolo del governo e del partito.

«Conte è entrato in politica da premier, è l’uomo del governo per eccellenza, non veniva dalla strada come molti di noi, ma da ambienti che contano, per questo la sua posizione intransigente non appare per nulla credibile», dice una parlamentare di rito governista, che ha evitato con cura anche di partecipare all’assemblea serale convocata dal leader per sondare gli umori del Gruppo. «Sarebbe come fare una seduta psicoanalitica, è solo una perdita di tempo», assicura, «ormai il nostro è un covo di persone che parlano in libertà senza mai prendere una decisione». C’è un un esercito di anonimi parlamentari che rinuncia persino a prendere la parola ormai, ma non ha alcuna intenzione di rispondere ai “comandi”.

Sono deputati e senatori preoccupati dalla mancanza totale di un progetto politico e da un futuro personale troppo incerto. I grillini sono tutt’altro che un pugno chiuso pronto a colpire al primo segnale del capo. «Piuttosto me ne vado nel Misto fino a fine legislatura», confessa un eletto. «Qui si respira solo un clima di stress, nessuno ti coinvolge nei processi decisionali, nessuno capisce la linea politica e nessuno è nemmeno in grado di garantirti una candidatura», ammette candidamente. C’è solo una certezza: «Conte non avrà mai il coraggio di decidere qualcosa, è il suo tratto distintivo. E poi cosa dovrebbe fare?», prosegue la nostra fonte, «andare all’opposizione per reimbarcare Dibba? Sarebbe la sua fine, verrebbe immediatamente spodestato». E messo con la faccia di fronte a un dilemma così complicato, l’ex premier opta per la tecnica che tanta fortuna, almeno per un paio d’anni, gli ha portato all’epoca di Palazzo Chigi: non rispondere.

«Intanto anche i più irriducibili sostenitori del Movimento, gli ultimi giapponesi direi, si domandano come sia stato possibile ridurre la più grande forza politica del Paese nella succursale della pavidità e dell’autolesionismo», conclude Di Battista, strappando, lui sì, il patto di non belligeranza con Conte. Barricaderi si nasce, non ci si improvvisa.