Uno stanzone immenso e cupo, con dentro una fila di operai compressi in tuta da lavoro tra gli ingranaggi della catena di montaggio. Nell’immaginario collettivo la fabbrica è ancora in bianco e nero, come lo Charlot di Charlie Chaplin ci mostrava quasi un secolo fa in Tempi Moderni. Ma la realtà non è più questa: la fabbrica di oggi, quando si tratta di imprese innovative, è organizzata in stabilimenti che assomigliano per precisione a sale operatorie. Parola di Marco Bentivogli e Diodato Pirone, rispettivamente segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici Cisl e giornalista “industrialista” del Messaggero, che nel libro inchiesta “Fabbrica Futuro” scritto a quattro mani ed edito da Egea (Bocconi), raccontano le trasformazioni degli impianti Fiat-Fca attraverso un viaggio all’interno delle fabbriche. A partire dai due casi più complessi: Pomigliano D’Arco e Melfi.

L’obiettivo è smentire il declino del settore manifatturiero e l’immagine di una catena di comando rigida e verticale, mostrando l’impatto del nuovo modello d’impresa in Italia fuori dagli stereotipi e dalla narrazione antindustriale. Un messaggio politico importante, liberato da un luogo comune diffuso: più tecnologia non significa meno uomini, meno operai.

Nella fabbrica del futuro, l’essere umano è e rimane insostituibile, forse ancor più che in passato. Solo l’uomo, infatti, può trasformare un algoritmo in un lavoro di qualità. Il dato emerge visibilmente da un rapporto Censis commissionato nel 2016 da Fiat, e pubblicato per la prima volta nel libro. Analizzando la relazione tra fabbrica e territorio nello stabilimento di Melfi, lo studio dimostra che nel passaggio da Fiat a Fca la quantità di lavoro impiegata per la produzione di ogni auto è aumentata del 20%. Insomma, per ogni vettura, secondo il Censis, c’è stata più «applicazione di lavoro», a conferma che le tecnologie non mettono a rischio i posti di lavoro.

Ma nel libro si affronta anche un’altra sfida raccolta dalla vecchia Fiat: generare una cultura aziendale orizzontale o a bassa gerarchia, che produca una visione del lavoro inclusiva e dinamica. Negli stabilimenti Fiat a cambiare è stato il ruolo del lavoratore, con la nuova figura del “team leader”, che mescola lavoro manuale a quello intellettivo, abbattendo la fatica fisica e valorizzando il contributo esperenziale.

Così l’operaio 4.0 è oggi chiamato a contribuire con le proprie idee. Per quanto concerne la governance, da un’azienda basata su un profilo piramidale si è passati ad un’organizzazione “a matrice” in un’ottica di responsabilità e partecipazione tra le parti sociali. Oggi Fca è gestita da un consiglio di 23 manager (il General Executive Council) che cooperano, ognuno con compiti specifici, sotto la vigilanza dell’amministratore delegato.

Il potere, spiegano Bentivogli e Pirone, si è dunque spostato verso il basso, uscendo dagli schemi del fordismo classico. Anche grazie al coraggio di una parte del sindacato. «Per assemblare una panda nella fabbrica FCA di Pomigliano - si legge nel libro - sono necessari 54.172 movimenti degli operai. Ogni movimento è stato misurato nella sua durata e nello sforzo fisico che comporta. La scelta di contrastare la fatica rende più produttiva l’immensa danza sincronizzata di oltre mille persone per turno che a Pomigliano garantisce la produzione di una Panda ogni 55 secondi».

Nel 2004, quando Sergio Marchionne venne chiamato a rianimare un’azienda tecnicamente fallita in un panorama industriale, come quello italiano, ad un passo dal baratro, iniziò quella rivoluzione che ha portato Fca a non avere alcun debito industriale, con impianti competitivi e all’altezza dei competitor mondiali. In quest’ottica è avvenuta la fusione con Psa, necessaria per affrontare gli enormi investimenti tecnologici richiesti dall’evoluzione industriale e la diminuzione dei profitti. Oggi, insieme, le due aziende fatturano circa 170 miliardi di euro, cifra che le avvicina a Volkswagen e Toyota, sfruttando la competitività della prima nelle due Americhe e della seconda in Europa.