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C’è una foto che è impossibile non ricordare oggi. Sorteggi dei gruppi di Russia 2018, una giostra pacchiana in cui Putin, tra doping di Stato, Donbass e dissidenti silenziati, cerca una nuova verginità internazionale. E lui, uomo di guerra, prova a farsi passare da paciere. Invita un Pelé già su sedia a rotelle e Maradona fresco di intervento ad anche e ginocchio per far loro superare anni di liti (in realtà i due si erano riavvicinati già con la trasmissione tv La Noche del Diez, con tanto di palleggio in studio). Poi cerca disperatamente, in mezzo a tante vecchie glorie profumatamente pagate per farsi vedere (si riconoscono Matthaus, Jay Jay Okocha, Marcel Desailly, Samuel Eto’o), di costruire una foto di gruppo a metà tra il mitico selfie degli Oscar di Ellen DeGeneres e Clinton che benedice la stretta di mano tra Arafat e Rabin. Insomma, una foto alla Silvio Berlusconi a Pratica di Mare per intenderci. Ecco, in quella istantanea c’è tutto Pelé. Il sorriso bambino e felice per il bacio di Diego Maradona, con cui si sono attaccati per una vita ma che alla fine, da uomini di campo invecchiati e dolenti, si ritrovano per una pace tutta emotiva, la mano che stringe quella del Pibe e ci si aggrappa e l’altra distratta ma non casuale che non dimentica Putin, in evidente disagio, totalmente fuori posto.
Sia mai che Edson Arantes do Nascimento si inimichi il potere o non lo blandisca. Che non sieda al tavolo più importante.
In una delle tante schermaglie con Diego quest’ultimo gli disse “si è venduto un mondiale nel suo paese per una Coca Cola”, alludendo a Usa ’94, agli ottimi rapporti del brasiliano con Kissinger e al colosso di Atlanta che avrebbe convinto il tre volte campione del mondo a far campagna per gli Stati Uniti contro la candidatura del proprio paese.
Pelé, in realtà, ha capito prima di tutti che il calcio non era più uno sport, un gioco, e che era divenuto un business. Anzi, a dirla tutta ha contribuito in modo determinante a questo cambiamento. Lui, che veniva da una povertà disillusa - il padre, Dondinho, era un ex calciatore stroncato nel momento della consacrazione da un infortunio al ginocchio -, giurò a se stesso che a calciar calzini e stracci e a pulir scarpe non sarebbe più tornato. Per questo non si cimentò mai con altro calcio che quello brasiliano, se non nelle coppe del mondo. Non per romanticismo o attaccamento alla maglia, ma perché la sua squadra lo torturò tra vittorie e tournée internazionali infinite, facendolo diventare la prima icona del marketing nel mondo dello sport e costruendo una joint venture squadra-campione che fu macchina da soldi avidissima e instancabile. Entrambi sacrificarono vittorie e sfide al denaro, integrità sportiva (il Santos rinunciò deliberatamente a un dominio che poteva essere storico, Edson soffrì ferocemente nel fisico questo ipersfruttamento che dagli anni ’90 in poi sarebbe divenuto regola). Se abbiamo avuto Cristiano Ronaldo, come fenomeno mediatico oltre che calcistico, insomma, lo dobbiamo a Pelé. Fu però al contempo uno straordinario precursore dei tempi. Non il più forte della storia del calcio - gli argentini Maradona e Di Stefano, l’olandese Johan Cruyff, probabilmente gli erano superiori - ma è stato di sicuro il più moderno e innovatore. In un calcio che a stento conosceva moduli elementari e ancora all’età della pietra, lui curava il suo fisico maniacalmente riuscendo a portarlo a un’efficienza tecnica e atletica al limite della perfezione per potenza e agilità, era padrone di una conoscenza tattica e strategica fuori dal comune, sapeva giocare senza palla quando, probabilmente, questa specificità del gioco del calcio non era stata neanche teorizzata. Quel Brasile fortissimo non vinse solo grazie a Pelé, ma non avrebbe potuto dominare un’epoca senza di lui: Didì, Vavà, Garrincha e soci avevano in lui un direttore d’orchestra e primo violino, esecutore e rifinitore che ricorda la consapevolezza, l’atletismo e lo strapotere fisico, tecnico e tattico dei grandi campioni moderni (il più vicino, in questo senso, sembra il Messi del Barcellona di Guardiola, anche se per certi movimenti e exploit acrobatici e atletici è Ronaldo quello che lo ha “imitato” meglio).
Il titolo migliore e più esaustivo per la dipartita di Pelé lo ha coniato il New York Times che ai tempi dei Cosmos lo celebrò senza risparmiargli critiche (anche lì il brasiliano era avanti anni luce, nel capire come altri mercati ricchissimi potessero essere la pensione dorata e il dividendo di una carriera di alto profilo): “Pelé, the Global Face of Soccer, Dies”. Lo era, nel bene e nel male. La faccia globale - e globalizzata - del calcio.