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potere giudiziario
La torsione del processo penale verso obiettivi securitari rappresenta, probabilmente, uno dei più vistosi disallineamenti dello ordinamento dello Stato rispetto ai principi enunciati dalla Costituzione. In verità, tutto il modo con cui si sono concretamente costruite le relazioni tra giudice e pubblico ministero, si sono intrecciati i rapporti tra procure della Repubblica e polizia giudiziaria, si sono alterate le correlazioni tra la pena e la sua espiazione, si sono allineati le interlocuzioni tra stampa e magistratura si colloca ai margini, se non fuori dal perimetro della Carta fondamentale e di tutti gli statuti internazionali di garanzia. Si è costruito una sorta di regime franco, di condizione anomica che nessuna legge riesce davvero a riportare all’ordine, di ginepraio che nessun intervento riesce a dipanare.
E’ stata una silente eversione, o almeno un’elusione, che ha lasciato sempre ( o quasi) intatta la forma - sia chiaro, quella è sempre stata apparentemente rispettata - ma che ha favorito il proliferare di un sottobosco nelle prassi, nella costruzione delle carriere, nelle interlocuzioni del deep state tra magistratura inquirente ed enti governativi della sicurezza che contraddice qualsivoglia separazione dei poteri e rappresenta, a ogni effetto, la più potente minaccia all’autonomia della politica e alla sua indipendenza dagli altri poteri della Repubblica. Una provocazione? Sicuro, ma necessaria visti i decenni in cui si è sempre recitato il mantra di una cittadella delle toghe assediata dalla politica e minacciata nelle sue guarentigie. Ma o la riflessione collettiva ribalta i piani d’analisi e tenta almeno di percorrere sentieri perigliosi e inesplorati, o altrimenti ci si arrende alla constatazione che la spada di Brenno è sulla bilancia e, quindi, “vae victis”. Guarda caso: una spada e una bilancia, la metafora millenaria della giustizia, scolpita in ogni anfratto giudiziario dell’occidente.
Nei giorni scorsi, prima, Giorgio Spangher e, poi, Giovanni Fiandaca e Alessandro Barbano hanno da par loro analizzato sulle pagine del Dubbio i contorcimenti del processo e del diritto penale che da circa quaranta anni affliggono la giustizia italiana, in nome di perenni stati d’eccezione, rendendola un Moloch aggressivo e, talvolta, pericoloso. Luciano Violante, in un’intervista di un paio d’anni or sono, ha ricapitolato efficacemente i termini politici e istituzionali di questa condizione accusando il potere giudiziario di essere divenuto un «potere di governo» .
Una frase che pesa come un macigno e che, quindi, merita ancora oggi alcune ulteriori considerazioni: ogni riflessione sul processo penale, e in generale sugli statuti di irrogazione delle sanzioni (misure di prevenzione e misure interdittive antimafia incluse) non dovrebbe prescindere dalla considerazione che proprio la giurisdizione – e non certo da sola - ha elaborato negli anni una propria Weltanschauung, una propria precisa visione e rappresentazione del mondo, che vive e si nutre di interviste, di libri, di convegni, di relazioni ufficiali, di un’immane pubblicistica, di serie televisive di successo; tutto questo plesso culturale e ideologico - nelle declinazioni ben evidenziate da Spangher e Fiandaca) - vive e si espande in modo del tutto autosufficiente, ossia senza la necessità che la politica abbia saputo far altro che assecondarne la traiettoria e assoggettarvisi; sino a idolatrare i medesimi totem e ad ammiccare ai sommi sacerdoti officianti i riti di quella ideologia.
Questo sedime ha generato una precisa antropologia criminale, ha agevolato la lettura della stessa storia repubblicana, ha spalancato la strada a una interpretazione delle relazioni politiche, sociali, finanziarie sostanzialmente totalitaria, ossia poco o per nulla incline a tollerare obiezioni o eccezioni e a marchiare il dissenso come una sorta di eresia o di strisciante collaborazionismo con il nemico. Tutto questo è stato ricapitolato dal compianto Filippo Sgubbi in un pamphlet di ineguagliabile nitore: Il diritto penale totale (Il Mulino, 2019); un caposaldo esegetico alla cui lettura occorre necessariamente rinviare.
Una cultura egemone, quindi, esattamente nel senso gramsciano del termine, provvista di una straordinaria capacità espansiva e in grado di aggredire e metabolizzare qualunque declinazione della vita pubblica dall’economia alla scuola, dal lavoro allo sport, dalla sanità all’arte, dalla politica alla agricoltura, indicati tutti come potenziali o reali luoghi del contagio mafioso da sottoporre a controllo; per giungere a stigmatizzare finanche i capisaldi della cultura nazionale con le polemiche durissime che ancora lambiscono la figura di Leonardo Sciascia dopo il profetico articolo sui professionisti dell’antimafia.
Partita dagli angusti anfratti della mafia e da una lettura regionalistica, se non localistica, di quella drammatica realtà, la decodifica del mondo è divenuta la Stele di Rosetta con cui poter decifrare le oscure trame delle organizzazioni criminali e della politica, interpretare il reticolo dei poteri occulti, rileggere la stessa storia del paese nei suoi paurosi e, spesso, colpevoli vuoti di verità.
Non esiste settore della vita della nazione che possa e, quindi, non debba nel ministero sacerdotale che discende dal “controllo di legalità” – sottrarsi al crivello dell’indagine penale; l’inquisitio generalis è prima che un modello d’indagine onnivoro, un paradigma culturale, una vocazione intellettuale che muove e sollecita settori cospicui della giustizia penale e, si badi bene, il più delle volte in assoluta buona fede; ovvero nell’assoluta convinzione che occorra bonificare, se non purificare, la società dai mali che l’affliggono e che, per attendere a questo compito immane, sia necessario «sorvegliare e punire», prendendo a prestito la famosa endiadi di Foucault.
Né è estranea al consolidarsi - anzi alla stessa originaria, rapida legittimazione di questa impostazione - la mera trasposizione dal versante della denuncia politica a quello giudiziario della “questione morale” additata da Enrico Berlinguer nella celebre intervista rilasciata ad Alfredo Reichlin, sull’Unità, il 7 dicembre 1980; se è vero, come era vero, che i «partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia», la condivisione dell’analisi imponeva una coerente chiamata alle armi della magistratura, già impegnata contro terrorismo e mafia in quegli anni, per dare risposta al grido di dolore della parte migliore del paese.
Questa cultura interventista è divenuta la precondizione, lo strumento della precomprensione delle prove e degli indizi e del loro peso dimostrativo, la forza trainante che giustifica finanche le opzioni più discutibili e controverse, come quella sull’ergastolo ostativo che ha a proprio fondamento non la realtà concreta del trattamento penitenziario, ma l’affermazione totalitaria di un modello antropologico sottratto a qualunque discussione e imposto come indefettibile; nessuno è davvero in grado di poter affermare che solo il pentimento attesti l’abbandono di un’organizzazione criminale, almeno che questa prova non sia sostituita da un sintagma inespugnabile, dalla presunzione invincibile che non esista la mafia, ma esista la mafiosità come stimmate incancellabili dell’anima.
E così, dopo le sanguinose battaglie per abbandonare la visione ottocentesca e del primo novecento della mafia come mero atteggiamento interiore, per sconfiggere la visione antropologica di Giuseppe Pitrè («Usi, costumi, usanze e pregiudizi del popolo siciliano», 1889), il pendolo della storia è tornato indietro e non mancano provvedimenti di irrogazione del regime speciale di 41-bis o di applicazione della sorveglianza speciale o di applicazione di un’interdittiva antimafia in cui non spiri, nell’ideologia e nell’impostazione sociologica che li giustifica, la convinzione, condivisa con Pitrè, che «anche senza conoscere la persona di cui si serve ed a cui si affida, il solo muover degli occhi e delle labbra, mezza parola basta perché egli si faccia intendere, e possa andar sicuro della riparazione dell’offesa o, per lo meno, della rivincita».
Suggestioni, deduzioni, stereotipi, massime d’esperienza, decodifiche unilaterali sono il sostrato profondo, il collante ideologico delle torsioni che Spangher e Fiandaca hanno, non da ora, sempre denunciato e stigmatizzato, con l’aggiunta che una cultura giudiziaria così sedimentata corre il rischio della sclerosi o dell’ischemia, ossia il pericolo di perdere di vista le attuali e moderne connotazioni dell’avversario e di smarrirne la prossemica criminale; in fondo le celebrazioni, gli anniversari, le commemorazioni si atteggiano quasi sempre a rievocazioni prive di un aggiornamento di quei capoversi interpretativi della realtà che pur sono stati indispensabili prima del 1982 per dare ingresso al reato di associazione mafiosa nel codice penale.
Le parole del senatore Scarpinato nel dibattito sulla fiducia, ma anche passaggi non secondari dell’intervento del presidente Meloni sulla mafia, si muovono nell’alveo di stereotipi culturali consolidati, ma non riqualificati; e, quindi, privi di concreti e riscontrabili elementi di verifica che sono indispensabili al fine essenziale di stabilire quale sia l’opzione strategica migliore per rintracciare un nemico scomparso da almeno un decennio dagli orizzonti delle indagini penali.
L’ortodossia e il conformismo culturale sono, al momento, la minaccia più grave nel contrasto ai fenomeni criminali organizzati; la dilatazione del doppio binario ( pena/ misure di prevenzione) verso fattispecie sideralmente lontane dalla mafia ( persino lo stalking), non rappresenta la dimostrazione dell’espansione inevitabile di uno strumentario ritenuto efficiente, quanto la prova della preoccupante incapacità di procedere a elaborazioni alternative, alla costruzione di modelli di investigazione che sappiano davvero leggere il moderno poliformismo della minaccia criminale per poterlo intercettare in modo non velleitario.
In fondo la debacle giudiziaria di “Mafia Capitale” dovrebbe pararsi a monito; rapidamente riposta nello scantinato della storia giudiziaria per la sua ingombrante e imbarazzante miscellanea di modelli sociologici inadeguati, presupposizioni sfocate e scoppiettanti campagne mediatiche, si dovrebbe - invece - ergere a riprova dell’insufficienza dei canoni interpretativi applicati e dell’inadeguatezza di approcci meramente e meccanicamente trasposti in un punto di caduta lontano dal loro perimetro di elaborazione.
E, giunti a questo punto, la parabola espositiva volge necessariamente al termine, ma si non può chiudere senza evocare gli scenari melmosi e mefitici, i miasmi del potere raccontati da Il Sistema; in quelle pagine (e nelle molte, molte altre non scritte e che mai si scriveranno) v’è il riflesso che quell’egemonia ha esercitato sulla costruzione delle carriere in magistratura, v’è la prova del triangolo d’oro tra pubblici ministeri disinvolti/ polizia giudiziaria compiacente/ giornalisti embedded nel carrozzone giudiziario; v’è la dimostrazione che un approccio al contrasto alla criminalità, concepito in modo geniale e profetico e a costo della vita, si sia trasformato in uno strumento di potere anzi, come diceva Violante, di governo della società, in una clava da far roteare sulle teste più o meno coronate dell’establishment e non solo.