Tutto quello che le resta di suo padre è in una foto in bianco e nero. Lui che le tiene la manina paffuta e le sorride. Lei che non riesce a guardarlo negli occhi, e porta il dito alla bocca in un’espressione a metà tra il timore e il riserbo. Bernice ci ha messo trent’anni per riuscire a sollevare lo sguardo verso di lui. Perché lui, suo padre, era Martin Luther King.

E quando fu ammazzato, quel 4 aprile del 1968, la piccola Bernice aveva solo cinque anni.

Di quel giorno in cui un colpo di fucile alla testa portò via suo papà a Memphis alla vigilia di un imponente marcia su Washington, Bernice ricorda poche cose ma significative. «Quando arrivò la notizia dell’assassinio – ha raccontato - stavo dormendo. Mia sorella Jolanda e mio fratello Martin invece la sentirono alla televi- sione. Jolanda chiese a mia madre: “devo odiare la persona che ha ucciso mio padre? ”. E lei rispose subito: “no”».

Fu proprio sua madre Coretta a spiegarle lapidaria che cos’era la morte. «Tuo papà non potrà mai più parlarti, non potrai più ascoltare la sua voce». Ma la piccola non se ne capacitò mai davvero. «Quando durante il funerale venne fatto ascoltare l’ultimo discorso pubblico da lui pronunciato – ha confidato - rimasi di stucco: come era possibile che io sentissi la sua voce? ». Morto ma ancora vivo. Sotto terra ma sulla bocca di tutti, in ogni radio e giornale.

C’era anche lei a quel funerale del 9 aprile del 1968 in cui il mondo intero pianse il reverendo. Ma che cosa accadde davvero a quelle esequie rimaste nella storia del ‘ 900, Bernice lo capì davvero undici anni dopo alla televisione. «Quando avevo 16 anni - guardando il documentario Montgomery to Memphis davanti alle immagini del funerale di mio padre cominciai a piangere per la prima volta. E piansi per due ore. Mi resi conto davvero di cosa mio padre aveva provato a fare. Credo che quello sia stato il mio primo vero momento di consapevolezza». Era morto, ma era ovunque. Non poteva parlarci, ma udiva sempre la sua voce dappertutto. Una verità troppo grande per una bambina di cinque anni. Che man mano, crescendo, dovette fare i conti con una figura che per lei era diventava sempre più ingombrante. «Per trent’anni l’ho rifiutato – ha ammesso Bernice - ho resistito ai suoi insegnamenti. Dovevo prima riflettere su me stessa e capire chi ero io. Non volevo essere una mini- Martin Luther King junior sol perché era andata così o così fosse giusto fare. Le sue battaglie volevo sentirle mie, interiorizzarle. Fino a quel momento ho deciso di non adottare niente di lui». È stato un lungo viaggio quello che ha portato la piccola Bernice a diventare Bernice King. Che è stata a lungo un’adolescente creativa e sognatrice, ma anche un po’ ribelle: studi di pianoforte, la passione per il canto, ma anche molti anni trascorsi a giocare a pallone, tra continue zuffe con i compagni di scuola. Ma alla fine è andata come doveva andare.

Oggi 55enne, mai sposata, nessun figlio, la piccola di casa King ha da tempo raccolto dalle mani di suo padre la fiaccola dei diritti umani. Pastore battista anche lei, dal 2010 Bernice è alla guida del King Center, l’istituzione nata nel 1968 che la vede impegnata nel continuare a diffondere la cultura della nonviolenza, a battagliare per i diritti civili e in particolare per quelli delle donne. «Mia madre Coretta – ha raccontato di recente a Monteleone di Puglia - diceva che le donne sono l’anima delle nazioni. Dunque, donne, alzatevi».

Già. Monteleone di Puglia, provincia di Foggia. È proprio lì che Bernice è arrivata a sorpresa nello scorso marzo. Ed è proprio in Puglia che l’Italia ha potuto finalmente scoprirla e ammirarla, quando è arrivata direttamente dagli Stati Uniti per ricevere il terzo Premio internazionale per la pace e la non violenza conferito dal Centro internazionale per la nonviolenza Mahatma Gandhi e dal comune di Monteleone. «Mio padre aveva un sogno», ha detto nel corso della cerimonia, «e anche io ho un sogno: che il mondo assuma la pace come stella di riferimento. Che in ogni luogo sia rispettato il valore e la dignità di ogni singola persona». Gli stessi occhi fulminei di suo padre, la stessa retorica possente che scuote dentro anche chi non capisce una sola parola dei suoi discorsi, la foga e la forza di una donna che prima di ribellarsi al mondo si è ribellata a suo padre e anche a se stessa. Sono passati cinquant’anni dalla morte del reverendo King. Ma il mondo sembra non essere cambiato poi molto, visto da questo squarcio poco rassicurante di terzo millennio. Lo scorso aprile, a mezzo secolo dall’assassinio di suo padre, Bernice ha lanciato alla sua nazione di nuovo scossa dall’odio e dalla xenofobia un messaggio vibrante. «Quella in cui viviamo oggi – ha detto fiera - non è l’America di Trump, è ancora la nostra America. Certo, assi- stiamo a un’insorgenza di gruppi che instillano odio e paura, ma anche se i media tendono a puntare i riflettori su di loro, questi gruppi non rappresentano la maggioranza del Paese. L’America è fortemente polarizzata, ma è ancora ricca di tanti cuori buoni, pronti a portare avanti ideali di pace e di giustizia. Nonostante tutto, gli americani non hanno dimenticato la lezione del “dottor King”, mio padre».

Parole che tornano buone anche per l’Italia: tra Bernice e il Belpaese è stato del resto amore a prima vista. Tanto che dopo la tappa pugliese, l’attivista è stata in ottobre ospite a Bologna anche della preghiera interreligiosa di Sant’Egidio. Ma non c’è due senza tre. Domani mattina Bernice aprirà infatti i lavori di Piazza Grande, all’attesa convention di Nicola Zingaretti. «Si può distruggere il male e l’ingiustizia nel mondo – ama ripetere la King - solo ricordandoci che dobbiamo accogliere le persone, convivendo in armonia e imparando da ciò che gli altri possono insegnarci e offrirci». La piccola è cresciuta. E ora guarda dritto negli occhi suo padre e il mondo che lui le ha lasciato. Di lui, di lei, c’è ancora bisogno.