«Sì, siamo bersagliati come se, per assurdo, fossimo anche noi una casta. È strano ma si è perso il valore della professione giornalistica. Nel senso che i social hanno prodotto molte rivoluzioni, non solo antropologiche ma anche nel processo informativo, che si è polverizzato. Ed è il motivo per cui è difficile difendere il nostro ruolo di giornalisti e, ancora, è il motivo per cui una parte dell’odio viene ormai scaricata proprio nei nostri confronti».

Carlo Verna presiede l’Ordine nazionale dei giornalisti italiani, e lo fa nel momento in cui è intensa come mai lo è stata prima la sfida per difendere la professione. «Abbiamo all’esame del Parlamento una legge, doverosa, che introdurrebbe deterrenze contro le querele temerarie ma che incredibilmente annaspa: la reclamiamo con tutta la forza possibile. E c’è poi la battaglia arrivata, grazie al cielo, innanzi alla Corte costituzionale sull’illegittimità della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Ma c’è anche un impegno a cui teniamo molto contro la cultura dell’odio, da condurre insieme con l’avvocatura italiana: è ormai pronto alla sottoscrizione il protocollo d’intesa con il Cnf».

Intanto in Parlamento è stata istituita una commissione sul linguaggio d’odio, grazie a Liliana Segre. E sul Corriere di giovedì Caterina Malavenda scrive che noi giornalisti siamo tra i bersagli più esposti all’odio in rete. È vero?

L’odio esiste da sempre. L’odio nei confronti di chi esercita un potere o, come nel nostro caso, semplicemente una funzione di pubblico interesse è fenomeno altrettanto storicizzato. Ora è chiaro che i social fanno da detonatore, ma è una propensione che c’è sempre stata. Il punto è che proprio la rete porta con sé una delle insidie con cui la nostra professione fa i conti, che è la polverizzazione delle fonti informative. Anche noi siamo tanti, certo: ma in un quadro simile è doveroso che i giornalisti difendano la specificità della loro funzione. Anche attraverso tutele più efficaci nei confronti delle querele temerarie, per esempio.

Intanto la legge presentata dal 5s Primo Di Nicola a Palazzo Madama va a singhiozzo.

È un testo in sé efficace perché semplicissimo. Ha un solo contenuto: se il giudice accerta che una querela per diffamazione ha una così chiara infondatezza da lasciarvi scorgere il solo intento di vessare il giornalista per tappargli la bocca, allora il querelante può essere condannato a pagare almeno la metà della cifra richiesta. In Senato ora si propone di introdurre il meccanismo della domanda riconvenzionale, che però lascerebbe al giudice una così ampia discrezionalità da affievolire moltissimo l’effetto deterrenza.

Lo studio statistico presentato una settimana fa, proprio al Senato, da “Ossigeno per l’informazione” conferma clamorosamente la natura temeraria di gran parte delle querele: il 70% finisce direttamente archiviata, le condanne sono si è no il 5%.

Con il presidente di “Ossigeno”, Giuseppe Mennella, ci sentiamo spesso. Svolge un’eccellente e puntuale opera di verifica statistica. Sarebbe sensato pensare ad arricchire l’effetto deterrenza anche con una specifica valutazione sull’eventuale azione reiterata del querelante. Se si verifica che un certo soggetto ha l’iniziativa giudiziale facile come espediente per occultare le proprie condotte, sarebbe opportuno considerare la circostanza come una spia indicativa, nell’esaminare la querela.

I giornalisti insomma devono difendersi da odio, vessazioni, querele. Cos’altro?

Siamo minacciati da un precariato terrificante, dalla immaterialità della produzione, che impedisce di accertare le irregolarità da parte degli editori. Ma la nostra condizione è difficile anche per l’incredibile squilibrio delle norme che in caso di diffamazione prevedono, com’è noto, anche il carcere. Adesso potrebbe intervenire la Consulta.

Si riferisce ai giudizi innescati dalle remissioni dei giudici di Bari e di Salerno?

Sì, giudizi in cui noi come Ordine abbiamo presentato istanza d’intervento. Con la procedura del prelievo, ossia con un’udienza preliminare in cui la Corte valuterà innanzitutto l’ammissibilità del nostro intervento, e con l’udienza del vero e proprio giudizio di costituzionalità fissata alcuni mesi dopo, entro febbraio o marzo 2020. Abbiamo buone chances: dall’ 82 in poi la Corte ammette gli Ordini professionali come enti esponenziali della categoria. Non è possibile che in Italia sia considerato doloso anche l’infortunio professionale, cioè l’articolo, eventualmente lesivo dell’onorabilità di qualcuno, viziato da un mero errore compilativo. Si assume il nostro dolo, non quello del medico che opera la gamba sbagliata. Assurdo. Come la responsabilità in vigilando del direttore che, vista l’ampiezza della produzione di una singola testata, è di fatto il solo caso di responsabilità oggettiva prevista dal nostro ordinamento penale. Ma su una simile battaglia ci faremo valere con tutte le forze.

A cosa pensa?

A una conferenza stampa o a un intervento su una rete televisiva nazionale già in caso di felice esito dell’istanza di prelievo dinanzi alla Consulta. Direi che anche sul carcere ai giornalisti il Parlamento si fa superare dalla Corte, come nel caso Cappato.

Siamo esposti a ingiustizie e invettive in rete. A che punto è l’intesa con il Cnf contro il linguaggio d’odio?

È un progetto molto importante. Il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti ha approvato la bozza di protocollo d’intesa con il Cnf dieci giorni fa. Credo che lo sottoscriveremo a breve con il presidente del Cnf Andrea Mascherin, che crede molto nell’accordo, così come il vicepresidente della Scuola superiore dell’avvocatura Rino Sica. L’obiettivo centrale è promuovere insieme la cultura del dialogo e della dialettica come valore che preserva innanzitutto la tenuta della democrazia, quindi vitale per ogni singolo cittadino. Chi è bersagliato deve difendersi ma è giusto anche che si impegni per diffondere una visione che dall’odio ci liberi una volta per tutte.