Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e segretario dello stesso Consiglio, che lo nomina nella sua prima seduta, è sempre contato più di un ministro e di un vice presidente del Consiglio per il rapporto fiduciario che lo lega al capo del governo. E per il filtro che costituisce su ogni documento che arriva ed esce come provvedimento da Palazzo Chigi, o arrivava ed usciva dal Viminale quando era quella la sede anche del governo, oltre che del Ministero dell’Interno.

Storiche sono rimaste le figure dei sottosegretari, alcuni dei quali destinati poi a scalare la politica, Paolo Cappa e Giulio Andreotti con Alcide Gasperi, Mariano Rumor e Umberto delle Fave con Amintore Fanfani, Oscar Luigi Scalfaro con Mario Scelba, Angelo Salizzoni con Aldo Moro, Antonio Bisaglia e Adolfo Sarti con Rumor, Franco Evangelisti con Andreotti, Giuliano Amato con Bettino Craxi, Gianni Letta con Silvio Berlusconi. Che, senza farselo imporre da Scalfaro, come racconta invece una leggenda, si scelse di sua spontanea volontà nel 1994 l’ex direttore del Tempo poi entrato nella sua scuderia, confermandolo negli altri passaggi a Palazzo Chigi e considerandolo con pubbliche dichiarazioni un capo dello Stato ideale: persino migliore di lui stesso, che vi aspirava.

“Indipendente” è la qualifica politica di Gianni Letta nell’elenco dei sottosegretari avvicendatisi a Palazzo Chigi. Egli infatti, se mai è stato iscritto alla Dc secondo un’altra leggenda, non lo è mai stato a Forza Italia e ai partiti o sigle che ne hanno accompagnato la storia. Indipendente è indicato anche Alfredo Mantovano, per quanto egli sia stato collega di partito di Giorgia Meloni nelle varie formazioni di destra avvicendatesi prima degli attuali Fratelli d’Italia, o sorelle come più o meno ironicamente si scrive sui giornali dopo i gradi guadagnatisi della sorella maggiore della premier, Arianna.

Se “Sorelle d’Italia” è diventato per scherzo il nome del partito della Meloni, “vicerè” di Palazzo Chigi viene spiritosamente chiamato Mantovano per il peso crescente nell’entourage della presidente del Consiglio. Che se ne fida ciecamente e gli affida le missioni più delicate, conoscendone la serietà, la competenza giuridica, le relazioni al di qua e al di là del Tevere.

Diversamente dai non indipendenti, cioè dai militanti di partito che lavorano con la Meloni a Palazzo Chigi e dintorni, Mantovano non ha bisogno di ostentare la sua forza o peso con dichiarazioni, interviste e tanto meno, o tanto più, con sortite estemporanee. Egli lavora in silenzio, con una discrezione che l’accompagna dall’esperienza di magistrato, nell’esercizio delle cui funzioni fu severo come altri colleghi negli anni di Tangentopoli senza tuttavia cercare la ribalta dei Di Pietro e dei Davigo. Il mio compianto amico Pino Leccisi, della Democrazia Cristiana, che divideva le sue simpatie fra Silvio Berlusconi e Arnaldo Forlani dopo una lunga militanza nella sinistra sociale di Carlo Donat- Cattin, piangendo una volta con me per la severità di trattamento ricevuto sul piano giudiziario mi parlò appunto di Mantovano senza che io ne conoscessi neppure il nome, tanto era stata la sua doverosa riservatezza nell’espletamento del proprio lavoro.

Più è cresciuto accanto alla Meloni, più è stato da lei coinvolto negli affari riservati e non riservati del governo, con delega peraltro ai servizi segreti concessagli dal primo momento, più Mantovano ha finito per procurarsi, suo malgrado, una certa insofferenza di altri sottosegretari, ministri e vice presidenti del Consiglio: quello leghista, Matteo Salvini, di sicuro non riuscendo il capo del Carroccio a dissimulare i suoi umori camminando e parlando di fretta con le solite frotte di giornalisti al seguito.

Ogni tanto i giornali scrivono e titolano di “caso” Salvini, appunto, o Tajani, o Giorgetti, o Valditara, o Lollobrigida, o Sangiuliano e via spulciando nella composizione del governo, ma forse il caso più avvertito fra i ministri che si sentono di volta in volta scavalcati, maltrattati, spiazzati, incompresi è proprio quello che porta il nome di Mantovano, salito peraltro così in alto senza avere mai dovuto fare il ministro. Al massimo, il vice ministro dell’Interno, e prima ancora il sottosegretario allo stesso dicastero nei governi Berlusconi, con deleghe e competenze delicatissime, anche allora, come il trattamento dei pentiti.

Anche quando il suo impegno politico gli impose di rinunciare un po’ ai suoi modi felpati per procurarsi i voti necessari alla sua elezione a deputato o senatore Mantovano riuscì a sorprendere e a preoccupare avversari al cui solo nome, per notorietà e peso, avrebbe dovuto preoccuparsi lui: per esempio, Massimo D’Alema. Che andò particolarmente fiero della propria elezione alla Camera nel collegio uninomimale di Gallipoli per avere battuto Mantovano. E volete che ora lui si preoccupi dei malumori di qualche ministro insofferente della sua pur involontaria vigilanza? Il “vicerè” è tranquillissimo. Sessantacinque anni compiuti a gennaio scorso, lavora, prega e dorme fra i due classici guanciali.