PHOTO
LaPresse
L’impegno, la promessa del «nuovo miracolo italiano» con cui Silvio Berlusconi chiuse il famoso videomessaggio della sua discesa in campo politico ricordato in questi giorni, a trent’anni di distanza da un evento che segnò più di ogni altro il passaggio dalla cosiddetta prima alla seconda Repubblica, evocava il miracolo degli anni Sessanta.
Che lui aveva vissuto giovanissimo e di cui è generalmente interpretato tuttora come film evocativo Il sorpasso, diretto da Dino Risi e interpretato da Jean- Louis Trintignant e Vittorio Gassman. Un film drammatico, a dispetto di ciò che doveva o voleva rappresentare, perché dei due protagonisti amici quasi per caso, e insieme inebriati dalla voglia di vita e di benessere di quegli anni uno - Roberto muore nell’ultimo sorpasso della trama. Mi ha fatto una certa impressione leggere in questi giorni dell’ambizione al sorpasso, appunto, attribuita ad Antonio Tajani alla guida di Foza Italia in vista delle elezioni europee di giugno. Un sorpasso che, compiuto all’interno del centrodestra sui leghisti di Matteo Salvini, dovrebbe riportare il partito azzurro - come Silvio Berlusconi voleva che fosse chiamato - alle due cifre, da quella unica cui era sceso con lo stesso Cavaliere. Che mi risulta non se ne desse pace, per nulla consolato dai volenterosi che gli ricordavano il peso avuto nella storia della Repubblica da partiti di quelle pur modeste, anzi ancor più modeste dimensioni: ad esempio, il Partito repubblicano di Ugo La Malfa e poi di Giovanni Spadolini, il primo peraltro ad avere interrotto la serie democristiana dei presidenti del Consiglio.
Quelli erano partiti secondo Berlusconi - a dispetto dell’ammirazione e del riguardo avuti in particolare per Spadolini, compensato con la presidenza della sua Mondadori dopo la perdita della presidenza del Senato all’avvio della cosiddetta seconda Repubblica - adatti più al “teatrino” che al teatro al quale lui pensava di avere portato la politica italiana dedicandovisi. Un teatro nel quale Eugenio Scalfari, che notoriamente non gli voleva molto bene, considerava il Cavaliere - scrivendolo ogni tanto nei suoi fluviali articoli non il protagonista e neppure un attore ma «l’impresario».
Cioè il proprietario, il padrone per la parte spettantegli rispetto a quello derivante dalla somma col teatro degli avversari. Fra i quali ultimi lo stesso Scalfari si considerava il grande consigliere, anzi il regolo, riuscendo spesso in effetti a influenzarli, indirizzarli e quant’altro. Grande pertanto fu la delusione del fondatore di Repubblica quando, dopo le elezioni del 1992 e la strage di Capaci, in un Parlamento costretto dalle circostanze a mandare al Quirinale uno dei suoi due presidenti, il democristiano Oscar Luigi Scalfaro dalla Camera o il repubblicano Spadolini dal Senato, l’ormai ex Pci guidato da Achille Occhetto osò disobbedirgli. A Spadolini, che aveva già preparato il suo discorso di insediamento, tanto era sicuro dell’elezione, il Pds preferì Scalfaro. E solo perché così si liberava la presidenza di Montecitorio per Giorgio Napolitano.
Ma torniamo ai nostri più modesti giorni. Non so quante probabilità abbia davvero Tajani di fare i suo sorpasso, pur con tutta l’esposizione che gli dà il ministero degli Esteri in questi tempi dominati dalla politica internazionale. L’ultimo sondaggio di Alessandra Ghisleri attribuisce sulla Stampa al partito azzurro il 7,5 per cento delle intenzioni di voto, con lo 0,2 per cento in meno rispetto a quasi un mese prima, contro l’ 8,4 dei leghisti, tuttavia in maggiore calo, avendo perduto lo 0,6 per cento. Le distanze degli uni e degli altri dai Fratelli d’Italia di Gorgia Meloni sono ormai siderali, con quel 28,5 per cento della destra proiettato ormai verso il 30.
Neanche se lo volesse per un misto di generosità e opportunismo la Meloni sarebbe in grado nel segreto delle urne, chissà quanto frequentate peraltro in giugno, di dirottare qualche voto della coalizione di governo da sé verso Tajani. Che, ad occhio e croce, con tutte le riserve necessarie nelle valutazioni politiche, potrebbe poi crearle meno problemi di Salvini nella gestione della maggioranza.
Di sorpasso a sinistra, nel campo opposto a quello del governo, sarebbe possibile solo quello di Giuseppe Conte sul Pd di Elly Schlein, saliti entrambi in un mese - sempre nel sondaggio della Ghisleri rispettivamente al 17,8 e al 19,5 per cento. Ma salendo Conte, con l’uno per cento, più della Schlein, spostatasi solo dello 0,3 per cento. Figuriamoci se, in questa situazione, al capo delle 5 Stelle verrà mai la voglia di ridurre la concorrenza che fa al Pd sul versante del populismo per diventare davvero il capo dell’opposizione che già sente di essere. Con quali conseguenze per il Pd, per le sue tensioni interne e per la salute politica della segretaria è facile immaginare.