Negli ultimi due anni in Italia sono stati sequestrati nella lotta al crimine beni per 5 miliardi e 300 milioni di euro, contro gli appena 100 milioni sequestrati nel resto del mondo. Se poi dai sequestri si passa alle confische, il loro valore nello stesso periodo ammonta a 2 miliardi 800 milioni nel nostro Paese, contro appena 21 milioni nel pianeta.

La notizia giunge dal summit svoltosi a Roma il 15 febbraio scorso tra le forze di polizia di diciannove paesi Ue, la procura europea, l’Interpol e altre organizzazioni internazionali. Pubblicata sul sito della polizia di Stato, è stata rilanciata senza stupore, e con supina condiscendenza, da pochi organi di informazione, che hanno fatto proprio l’appello del direttore centrale della polizia criminale, Vittorio Rizzi, ad allineare la caccia ai latitanti alla sottrazione dei patrimoni illeciti. Nessun politico e nessun mafiologo, tra i tanti che sdottoreggiano nei talk dopo la cattura di Matteo Messina Denaro, l’ha trovata, come invece a me pare, stupefacente.

Al netto di quello che ha tutta l’aria di essere un errore, e cioè l’aver probabilmente confuso il mondo con l’Eurozona, il volume dei sequestri in Italia risulta cinquanta volte maggiore di quello dei restanti diciannove Paesi del Vecchio Continente messi insieme. Riferita alle confische, la nostra quota di beni espropriati è addirittura centotrentatré volte quella di tutti gli altri. Neanche se fossimo diventati il Venezuela o l’Honduras un simile rapporto sarebbe giustificabile.

Il dato risulta più sorprendente se si considera che ormai da anni il nostro Paese registra un numero di omicidi tre volte inferiore a quello di Germania, Francia e Gran Bretagna. Si dice che la mafia è più furba e non spara per fare affari sotto traccia. Ma gli affari loschi si fanno anche altrove: nel porto di Anversa si sequestra in un anno due volte e mezzo la quantità di cocaina scovata a Gioia Tauro. Siamo sicuri di essere ancora un unicum criminale nel panorama internazionale? Se noi espropriamo cinque miliardi di ricchezza con le misure di prevenzione in soli due anni, senza che nessuno ci venga dietro, sono tutti, i nostri partner europei, inetti e collusi con il crimine? Oppure noi stiamo viaggiando contromano in autostrada e siamo tanto ubriachi da non accorgercene? Questa domanda è diretta ai partiti che nelle ultime settimane hanno alzato la bandiera del garantismo. E i cui esponenti, anche di vertice, sono purtroppo ignari di ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Dove è possibile confiscare immense ricchezze a cittadini assolti, a terzi mai indagati, a eredi ignari e, da ultimo, alle vittime della mafia, cioè a imprenditori costretti a pagare il pizzo. Perché le misure cosiddette di prevenzione prescindono dall’accertamento di un delitto, a differenza da quanto avviene ovunque in Europa. E perché, tanto nella legislazione, quanto nella giurisprudenza, quanto nella cultura inquisitoria, si fa strada un ribaltamento giuridico che coincide con una ritirata civile: la colpevolezza viene surrogata dalla pericolosità.

Che vuol dire, in concreto? Che nel mirino della giustizia non c’è più il reato, ma il reo. Ma un reo senza un reato di che cosa sarà mai colpevole? Di niente, spiegano quei giuristi viziosi che hanno concepito un sistema mostruoso e che oggi lo difendono contro ogni evidenza e contro ogni censura, sostenendo che la confisca non è una pena ma una misura che protegge l’economia dalle infiltrazioni criminali.

Senonché state a sentire in che modo si realizza questa protezione. I cinque miliardi e trecento milioni di beni espropriati sono più dei tre miliardi e mezzo destinati dalla manovra del governo Meloni al taglio del costo del lavoro. Se si considera che il 94 per cento delle imprese confiscate va in malora e finisce in liquidazione nelle mani dello Stato, si può stimare che l’impatto della prevenzione sull’economia causi in due anni una perdita economica di cinque miliardi, salvando solo i restanti trecento milioni. È una valutazione approssimativa, riferita alle aziende espropriate, ma in quel pacchetto di beni sottratti ai privati ci sono molti immobili, che sotto la gestione pubblica vengono novanta volte su cento vandalizzati e depredati, e tuttavia preservano ancora una parte di valore. In ogni caso si tratta della più grande distruzione di ricchezza che l’intervento pubblico determina nell’economia privata e insieme della più grande manomorta della storia repubblicana.

Una politica digiuna di qualunque categoria giuridica e un’informazione passiva ignorano o fingono di ignorare che, dietro la retorica della lotta alla mafia, si è consolidato nella nostra democrazia un sistema ideologico e insieme parassitario, che si propone, con l’esercizio dell’azione penale, di redistribuire la ricchezza e finisce invece per immetterla in un circuito corporativo, costituito da spezzoni della burocrazia pubblica e delle libere professioni. Come tutte le concrezioni di potere capaci di autoalimentarsi fuori da ogni controllo, questo sistema è andato in tilt, finendo per danneggiare l’economia e favorire proprio la criminalità, che pure dovrebbe combattere. Non a caso i primi danneggiati dall’azione pervasiva della prevenzione penale sono le vittime della mafia, cioè gli imprenditori costretti a pagare il pizzo per lavorare.

Nei giorni scorsi a Reggio Calabria è stato eseguito il sequestro di beni per 45 milioni di euro a due fra gli imprenditori edili più importanti della città. Ne fanno parte diciotto società, una in Florida, dieci veicoli, 337 fabbricati e 23 terreni tra la Calabria e gli Stati Uniti. Francesco e Demetrio Berna erano stati arrestati tre anni fa sulla base delle dichiarazioni di un pentito che li accusava di essere imprenditori di riferimento della cosca “Libri”. Proclamatisi sempre innocenti, i due fratelli hanno raccontato ai pm di pagare il pizzo a tutte le cosche reggine e per questo sono diventati testimoni di giustizia, vivono da tre anni sotto protezione insieme con i loro familiari, e sono stati ammessi a costituirsi come parti civili contro i boss che hanno denunciato.

Nel frattempo le loro aziende sono state sottoposte a sequestro penale e l’amministratore giudiziario, con l’avallo del giudice, ha assunto uno dei due, Francesco, come consulente, per impedirne il fallimento e salvare il posto di decine di lavoratori. Nel processo di primo grado a loro carico gli imprenditori hanno confutato le accuse del pentito, dimostrando, anche con la denuncia degli estortori, di essere vittime della mafia e non collusi. Alla vigilia della sentenza di primo grado giunge, come un fulmine a ciel sereno, il sequestro di prevenzione sui beni già sequestrati dal giudice penale. Che cosa dovrebbe prevenire la prevenzione, se il patrimonio dei due fratelli è già nella custodia dello Stato? C’è una sola risposta plausibile per questa domanda: il nuovo sequestro si giustifica per impedire che, nell’ipotesi di una loro assoluzione, i beni gli vengano restituiti. Perché il procedimento di prevenzione non solo è autonomo, ma si fa notoriamente con gli scarti di quello penale, e finisce per surrogarlo quando quest’ultimo manca l’obiettivo: non sono riuscito a condannarti, ma ti tolgo tutto quello che hai.

Per raggiungere questo risultato nel procedimento di prevenzione l’azione penale assume il pizzo come prova che giustifichi la confisca. Con beata impudenza lo spiega il cronista de “la Repubblica”, riassumendo le motivazioni del decreto di sequestro: «Benché sottoposti a estorsione ad opera delle numerose cosche presenti nei quartieri della città in cui erano aperti cantieri, i Berna sarebbero stati rappresentati, nelle interlocuzioni con i vertici delle varie ‘ ndrine, dagli esponenti della cosca “Libri”, che avrebbe garantito loro un trattamento di favore». Come dire: lasciate in pace i Berna, perché pagano a noi e noi li proteggiamo. E siccome i due fratelli foraggiano la mafia, saranno perseguitati dalla mafia e dallo Stato che ha rinunciato a proteggerli.

Quello dei Berna non è un caso eccezionale, ma l’esempio di una tragica ordinarietà, che si ripete da almeno un ventennio in regioni come la Sicilia e la Calabria, con l’avallo di alcune sentenze della Corte di Cassazione, per le quali, «ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione, il concetto di “appartenenza” è, notoriamente, più ampio di quello di “partecipazione”, ricomprendendo tutte quelle aree di contiguità, dal concorso esterno alle variegate espressioni di cointeressenza, che occorre perseguire per rimuovere ogni forma di fattiva solidarietà al fenomeno della criminalità organizzata». Cioè non solo i partecipi, non solo i concorrenti esterni, ma anche chi paga il pizzo in quanto fonte di «fattiva solidarietà» alla mafia.

I supremi giudici non lo dicono espressamente, ma autorizzano di fatto decine di pm e di corti di primo e secondo grado a pensarlo e a scriverlo. Viene a questo punto da chiedersi: chi mai più a Reggio Calabria denuncerà il ricatto, sapendo che avrà contro, allo stesso tempo, la mafia e lo Stato? E chi, tra coloro che decidono e raccontano le sorti del Paese, avrà il coraggio di fermare questa feroce deriva di polizia?