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Perché i carabinieri hanno convocato Giovanna Pedretti in caserma per interrogarla come persona informata sui fatti? È la domanda chiave, nel suicidio della ristoratrice, ancorché del tutto ignorata da media e politici, che da quarantott’ore, e da parti opposte, si rinfacciano la responsabilità della gogna, come fonte di una presunta istigazione al suicidio.
Nessuno si chiede perché un cittadino debba essere convocato da un’autorità di polizia per spiegare il senso di una sua libera manifestazione di pensiero sui social, ancorché non veritiera, ancorché forse mossa dal bisogno di farsi pubblicità. Non esiste più in Italia il diritto alla bugia?
È legittimo che a smascherarla sia un influencer. È discutibile che l’influencer si travesta da investigatore, vantandosi di una conversazione-interrogatorio con la vittima, messa nel mirino del suo bazooka di verità. Ma a che titolo la potestà autoritativa dello Stato interviene a far luce sulla veridicità del dibattito pubblico? C’è una notizia di reato che giustifica l’intervento? O piuttosto i carabinieri sono una polizia morale? E se lo fossero, noi saremmo ancora una democrazia?
Queste sono le domande che dovremmo porci sulla tragedia della ristoratrice. Le suggeriamo al magistrato che indaga sull’ipotesi di un’istigazione al suicidio. La prima cosa da fare sarebbe chiedere ai carabinieri se il loro intervento è stato sollecitato e da chi, chi e perché è intervenuto, che cosa si voleva appurare, che cosa e in che modo è stato chiesto a Giovanna Pedretti la sera prima del suo suicidio. Riportare questi quesiti al centro dell’indagine è la condizione per rimettere il ruolo dei poteri pubblici in asse con lo Stato di diritto. Restiamo in attesa di una risposta.