Fa un certo effetto ascoltare le parole di Elly Schlein sulla presunta corruzione che ha investito l’Europarlamento. Schlein ha infatti scelto la via più facile e si è immediatamente allineata al mainstream “giustizialista”, a tutti coloro, cioè, che chiedono pulizia senza neanche aspettare, non una sentenza (non pretendiamo tanto), ma almeno un rinvio a giudizio.

Schlein parla di vergogna, chiede fermezza ed evoca l’eterna “questione morale” - ormai svuotata di qualsiasi significato reale e trasformata in vuota formula - come un qualsiasi funzionarietto di partito. Il tutto - vale la pena ripeterlo - come se il processo fosse stato già celebrato e non si trattasse di semplici avvisi di garanzia o misure cautelari che, al momento, coinvolgono solo una eurodeputata. Insomma, se davvero Schlein avesse voluto presentarsi con discontinuità - che poi è la cifra della sua candidatura alle primarie dem - , avrebbe semplicemente potuto sfogliare la biblioteca di famiglia e spolverare i vecchi libri di suo nonno, Agostino Viviani. Resistente, avvocato - grande avvocato - , e poi membro laico del Csm, Viviani, per quei pochi che non lo sapessero, ha fatto della battaglia garantista una ragione di vita.

Parlò senza mezzi termini di “degenerazione del processo penale”, perché era convinto che le vittime della “giustizia ingiustizia” fossero altrettanto fragili delle vittime che non ottengono giustizia. E parlò di mediatizzazione del processo penale mettendo al centro i diritti degli indagati presentati come colpevoli. Intendiamoci, Schlein ha usato parole molto meno forti di altri campioni delle manette che, come l’ex ministro Speranza, hanno chiesto pulizia rifiutando categoricamente “qualsiasi forma di garantismo” (sic!). Ma Speranza, ahilùi, probabilmente non ha mai sfogliato un libro di Agostino Viviani. Per questo ci saremmo aspettati che lei, Schlein, avesse deragliato dal mainstream degli indignati di professione per affrontare la questione in modo serio, magari raccogliendo e rilanciando l'allarme della presidente Roberta Metsola che ha descritto senza mezzi termini una Europa sotto attacco: “La democrazia europea è sotto attacco; e il nostro modo di essere società aperte, libere e democratiche è sotto attacco». E ancora: «I nemici della democrazia, per i quali l’esistenza stessa di questo Parlamento è una minaccia, non si fermeranno davanti a nulla. Questi attori maligni, legati a Paesi terzi autocratici, hanno presumibilmente armato Ong, sindacati, individui, assistenti e deputati nel tentativo di soffocare i nostri processi».

Insomma, anche Schlein avrebbe potuto scegliere di difendere l’Europarlamento senza sacrificare la presunzione di innocenza e mettendo in guardia dagli effetti collaterali di una inchiesta che rischia di delegittimare l’ultima istituzione credibile, e nello stesso tempo dar fiato ai “piccoli” Orban che popolano le “nazioni” del vecchio continente e la cui deriva illiberale può essere arginata solo da una Europa forte e credibile. Certo, non siamo ingenui e sappiamo bene che la candidatura alle primarie del Pd spinge chiunque verso una normalizzazione e un'omologazione.

Eppure, il punto di forza di Schlein è proprio la sua bella diversità: una naturale distanza, quasi una estraneità, rispetto ai bizantinismi correntizi del Pd e all’appiattimento politicista di tutti gli altri candidati. E sarebbe un peccato se perdesse questa sua diversità per diventare una copia sbiadita del candidato “ideale” e gradito dall'establishment dem. Sarebbe un peccato per lei, ma anche per lo stesso Pd, un partito che ha bisogno come il pane di una voce garantista in grado di aprire una breccia nella fortezza giustizialista nel quale è incastrato da anni.