Come nella favola di Esopo in cui la volpe che non riesce a raggiungere l’uva vi rinuncia perché acerba, giornali politicamente schierati a sinistra hanno collegato la vittoria non certo imprevista del centrodestra nelle elezioni regionali di Lombardia e Lazio alle urne svuotate da un astensionismo del 60 per cento e più di cittadini aventi diritto al voto. Ai quali non sono stati sufficienti neppure il giorno e mezzo messo loro a disposizione questa volta per recarsi ai seggi.

Questa fuga, questo “addio alle urne” evocato dal manifesto come quello alle armi scritto nel 1929 da Ernest Hemingway ha indotto anche il probabile nuovo segretario del Pd Stefano Bonaccini, se non verrà superato da Elly Schlein nel percorso residuale del congresso, a seguire nella disinvoltura i suoi predecessori definendo «dimezzata» la vittoria elettorale degli avversari di centrodestra. E considerando esagerata quindi la soddisfazione espressa a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni, che si sente rafforzata, specie dopo il colpo inopinatamente assestato al suo governo sul piano internazionale da Silvio Berlusconi criticandone la smania d’incontrare «il signor» Zelensky, dopo tutto quello ch’egli avrebbe fatto per provocare Putin e quello che sta facendo, anche col nostro aiuto economico e militare, per resistere all’aggressione russa.

Il prezzo che ha pagato Berlusconi per questa sortita contro il presidente ucraino, che non è stata la prima e probabilmente non sarà neppure l’ultima, conoscendo ormai l’ostinazione e le amicizie dell’anziano fondatore ma non più leader assoluto del centrodestra, ora destra- centro, è stato di carattere solo personale. La sua “Forza Italia”, progressivamente abbandonata nei vertici e nelle urne da “traditori”, “ingrati” e simili, è ormai scesa in Lombardia, la culla dove è nata, al 7,2 per cento e nel Lazio al 7,8, contro il 25,2 e quasi il 34 del partito della Meloni, o il 16,5 e l’ 8,4 della Lega di Matteo Salvini. Non è un bel bilancio, francamente, anche se può essere di consolazione per l’ex presidente del Consiglio il flop registrato dal cosiddetto terzo polo tra Lazio e Lombardia, dove pure Carlo Calenda e Matteo Renzi avevano sponsorizzato una ex forzista di fama come Letizia Moratti nella corsa al Pirellone.

Certo, Berlusconi ha ancora in Parlamento i numeri per far cadere la Meloni, se e quando gli pare, ma sarebbe come segare il ramo dell’albero su cui è seduto pure lui. E passare dalla padella alla brace.

Per tornare alla volpe di Bonaccini e dei giornaloni che hanno dimezzato d’ufficio la vittoria della Meloni per l’aumento ulteriore dell’astensionismo, come se la sinistra l’avesse fatto salire apposta, l’astuzia da quelle parti è ormai così scarsa e autolesionista da dimezzare così anche i pochissimi aspetti positivi, anzi l’unico riservato dalle urne al Pd. Che, dopo una lunga serie di sondaggi nazionali che avevano fatto perdere letteralmente la testa a ciò che rimane dei grillini, ha evitato il sorpasso di Giuseppe Conte, precipitato al 3,9 in Lombardia, rimanendo alleato col Nazareno, e sotto il 9 per cento nel Lazio, dove ha voluto misurarsi praticamente da solo, forse ricordando gli opinabili fasti capitolini, chiamiamoli così, di Virginia Raggi.

Qualcuno ha scherzato a destra sull’assonanza fra la percentuale altissima dell’astensionismo elettorale e gli ascolti vantati dall’edizione più politicizzata del festival di San Remo, gratificato nella edizione appena conclusa della presenza iniziale del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Che si è scomodato dal Quirinale con la figlia per divertirsi, fra l’altro, alla declamazione della Costituzione affidata a Roberto Benigni. L’assonanza è servita ad attribuire con schermo alla sinistra la maggiore manifestazione canora nazionale, facendole secondo me un torto, e facendone anche alla stessa destra, come se avesse riconosciuto e riconoscesse l’atavica impossibilità di marcare una presenza anche in quel campo.

Nossignori, questo è un errore, uguale a quello di chi ha diviso fra destra e sinistra, facendone una questione politica che tale non doveva e non poteva essere, la polemica sulla recitazione della Costituzione fatta da Roberto Benigni al festival di Sanremo davanti al presidente della Repubblica nel 75. mo anniversario della sua applicazione. Con tanto di retroscena che non meritava davvero il capo dello Stato, cultore dichiarato del grande Alessandro Manzoni, che egli volle una volta felicemente citare, in una sortita istituzionale, perché i populisti di un tanto al chilo non continuassero a confondere di tanto in tanto il buon senso col senso comune. Cosa che si sta peraltro ripetendo con le polemiche sulla portata e sul significato attribuibile, ai fini della lettura dei risultati elettorali, al fenomeno crescente dell’astensionismo.

Come ogni volta si fa, specie di lunedì, con l’aula parlamentare di turno vuota, alla Camera o al Senato, magari convocata solo per la comunicazione dovuta dei decreti legge entro cinque giorni dalla loro emanazione. Polemiche che so infastidiscono non poco, e giustamente, un parlamentarista convinto, anche di cattedra, come Mattarella.