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«Sto bene, a Bologna mi sento a casa. Ora bisogna fare qualcosa per Ilaria Salis». Patrick Zaki si esprime così a Verissimo in una lunga intervista in cui ripercorre le tappe della sua vicenda: dall'arresto in Egitto nel 2020 ai 21 mesi di carcere prima della grazia e del ritorno in Italia, a Bologna, dove studiava prima dell'arresto. Quindi, l'attivista egiziano lancia un'appello per Ilaria Salis, detenuta in Ungheria: «Bisogna parlare e scrivere di lei, viene trattata in modo disumano». «Sono davvero rattristato da quello che ho visto, le immagini di Ilaria Salis ammanettata - sottolinea Zaki - È disumano, non si può accettare che un essere umano venga trattato così. Nelle sue lettere si lamenta perché non può godere dei minimi diritti. Bisogna scrivere e parlare di lei, cerchiamo di interferire con questa dinamica e salvarla da quello che sta vivendo in questo momento. Quando ho visto le foto, sono rimasto scioccato. Come si può trattare una cittadina italiana in questo modo? È una cosa che non si può tollerare».
«Mentre ero in carcere, mia moglie mi ha sostenuto per tutto il tempo, è stata una fonte di forza durante la detenzione. Ora sto facendo passi avanti e progressi nella mia carriera, io sono molto tranquillo. Mia madre è contenta e serena quando sa che sono in Italia. Ha sofferto molto, ricordo che ogni visita in carcere si chiudeva con le sue parole “sono triste perché non posso portarti a casa”», dice l'attivista egiziano nell'intervista in inglese.
Zaki racconta il momento del suo arresto
L'arresto «è stato il momento più difficile. Sono scomparso per 24 ore, ma ci sono persone che sono scomparse per periodi molto più lunghi. Ci sono stati molti casi simili al mio, quando sono stato bloccato all'aeroporto» al Cairo «ho capito cosa stava accadendo. Sapevo cosa sarebbe successo. È stato terribile, soprattutto le prime ore. L'aspetto psicologico è stato molto complesso, le violenze psicologiche sono state più dure di quelle fisiche", racconta ripensando ai 20 mesi di detenzione. «Sei sempre in ansia, sempre depresso, sempre a farti domande e a chiederti quando sarebbe finito. Nessuno veniva a parlarmi per dire cosa stesse succedendo. È difficile pensare quale sia stato il momento più duro, tutta l'esperienza è stata durissima. I secondi sembrano anni, serve una routine per non impazzire», aggiunge.
La liberazione è arrivata a sorpresa: «Dopo la prima udienza, mi hanno fatto salire su una macchina e mi hanno detto 'vai fuori', senza spiegarmi nulla. Sono fortunato, ci sono persone che sono ancora in carcere. Sono triste per il tempo passato in prigione, non dovevo nemmeno essere sotto processo. Sono fortunato perché sono qui in Italia, ma sono preoccupato per quello che è successo a me e succede a altri».
Ora, la nuova vita a Bologna: «La città è generosa, i bolognesi mi chiedono se sto bene, se ho bisogno di qualcosa. Mi considero un bolognese. Adesso, posso permettermi di non pensare a quello che succede domani. In prigione andavo a dormire chiedendomi quando sarebbe finito il mio incubo». «Ora sfrutto ogni momento della mia libertà per fare tutto quello che voglio fare. Voglio sfruttare ogni secondo. Chiunque vada in prigione non riesce a superare la sensazione di paura. Ma io non potrò vivere nella paura, devo fare di più. Mi sento colpevole nei confronti dei miei amici che sono ancora in prigione, sento a volte che non faccio abbastanza...».