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suicidi in carcere
di Francesco D'Errico, presidente dell'Associazione Extrema Ratio
Il carcere è un luogo chiuso, buio, serrato, inaccessibile e sconosciuto ai più, spinto ai margini delle città, situato lontano dal circuito della cosiddetta normalità, isolato e tenuto a debita distanza dalla comunità. Tra le sue mura si può misurare l’irriducibile distanza tra la previsione formale delle garanzie individuali tutelate dalla Costituzione e la materialità dei corpi quotidianamente incisi dalla reclusione, uno iato che emerge chiaramente ne “Il carcere invisibile. Etnografia dei saperi medici e psichiatrici nell’arcipelago carcerario” (Meltemi, 2021) di Luca Sterchele, ricercatore di Sociologia all’Università degli Studi di Padova.
Con questa poderosa pubblicazione, servendosi di un metodo di ricerca spiccatamente etnografico, arricchito da una solida analisi teorica, Sterchele ha infatti affrontato il complesso tema della “questione psichiatrica” in carcere, provando anche ad evidenziare l’infondatezza di alcune radicate convinzioni che la riguardano. Il carcere è davvero diventato un “nuovo manicomio” a seguito della chiusura degli OPG? C’è un nesso causale tra la loro abolizione e la diffusione del malessere psichico tra la popolazione detenuta? Secondo l'autore tale retorica è fragile: “appare scivolosa e problematica” e “miope nelle sue articolazioni a prima vista lineari”, oltre ad essere in definitiva dannosa per diverse ragioni.
Non consente, innanzitutto, di interrogarsi sul “ruolo del progressivo indebolimento dei servizi di salute mentale e di welfare nell’ostacolare la completa attuazione dei principi contenuti nelle riforme”, individuando, al contrario, nei movimenti abolizionisti il bersaglio da colpire. Vedendo nello svuotamento degli OPG la principale causa del disagio psichico nel penitenziario, inoltre, non si riesce “a dar conto degli effetti disabilizzanti dell’istituzione carceraria stessa, che resta un dispositivo che agisce in via prioritaria sul corpo recluso producendo continuamente sofferenza e incapacitazione”. D’altronde la correlazione non implica la causalità, soprattutto in un’area come quella che interessa la salute mentale e il carcere, così complessa e intricata, rappresentabile come un crocevia di discipline e intersezione di opposte esigenze e relazioni.
In tal senso dalla ricerca emerge chiaro un aspetto: nonostante il trasferimento, nel 2008, delle competenze sanitarie della medicina generale e specialistica penitenziaria dal Ministero della Giustizia al SSN, si registra ancora uno sbilanciamento a favore della logica del controllo rispetto a quella sanitaria, in un contesto che “pur essendo spesso orientato in un’ottica di collaborazione, comporta il mantenimento di una certa attenzione da parte del gruppo dotato di minor potere - appunto l’area sanitaria che potrebbe vedersi ostacolato nell’espletamento della sua mission istituzionale”.
Sullo sfondo si staglia nitida la carenza strutturale di risorse da cui ha origine, tra le altre cose, una “mancanza di attività lavorative - o anche solo ludiche che determina uno stato di noia costante”, il quale a sua volta favorisce l’emersione di stati ansiosi nella popolazione detenuta. È anche per questo che gli psicofarmaci dilagano: “il carrello dei farmaci ha poche cose sopra, quelle che si usano più di frequente: una scatola di guanti usa e getta, due o tre disinfettanti, un termometro auricolare e una boccetta di valium”.
Nelle conclusioni il sociologo non tentenna: il carcere andrebbe abolito. Pur riconoscendo le nobili intenzioni dell’approccio riformista, sia in chiave di umanizzazione che in termini sanitari, Sterchele ricorda che il penitenziario negli anni ha riprodotto e conservato i suoi mali, facendo prevalere su tutto la propria natura repressiva, patologica e marginalizzante. Nella ricerca di alternative future, per non incorrere in pie illusioni, è bene tenere a mente il vero obiettivo: mettere in discussione la carceralità come dispositivo e non disfarsi soltanto del carcere come istituzione.