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Il plenum del Csm ha votato favorevolmente allo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura, parere arrivato proprio mentre la Commissione Giustizia adottava come testo base della riforma dell’ordinamento giudiziario quello elaborato dall’ex ministro Alfonso Bonafede. Un tema delicato, ha affermato Alessio Lanzi, relatore del parere, data «la diffusa percezione di una insidiosa compenetrazione fra i due ambiti, politico e giudiziario», notevolmente accresciuta dallo scandalo Palamara. La norma Bonafede, in sostanza, prevede l’ineleggibilità dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili e militari alla carica di parlamentare nazionale ed europeo, consigliere regionale o presidente di regione (o di provincia autonoma) nella circoscrizione elettorale nei quali abbiano esercitato le funzioni giurisdizionali nei due anni precedenti la candidatura. Stesso divieto è previsto in relazione alla carica di sindaco di comune con più di 100mila abitanti, nel caso in cui nei due anni precedenti abbiano svolto funzioni giurisdizionali nel territorio della provincia in cui è ricompreso il comune. All’atto dell’accettazione della candidatura il magistrato dovrà essere in aspettativa senza assegni da almeno due mesi. I magistrati candidati e non eletti non potranno poi essere ricollocati in ruolo presso un ufficio avente sede nel territorio della Regione nella cui circoscrizione non sono stati eletti o in un ufficio del distretto nel quale esercitavano le funzioni al momento della candidatura. Previsto, inoltre, per tre anni il divieto di svolgere funzioni di gip/gup e requirenti e di presentare domanda per posti direttivi e semidirettivi. Per i magistrati eletti, alla cessazione della carica, è prevista la perdita dell’appartenenza ai ruoli della magistratura e il loro inquadramento in un ruolo autonomo del ministero della Giustizia, di un altro ministero o della Presidenza del Consiglio dei ministri. Nella sua relazione, Lanzi ha espresso una valutazione complessivamente positiva della disciplina, pur evidenziando «alcuni profili di problematicità» e auspicando «una maggiore armonizzazione tra le disposizioni complessive del Capo III che sembrano quindi presentare una certa incongruenza, laddove si consideri la severità del regime applicabile al magistrato che abbia svolto un mandato elettivo o un incarico di governo anche assai breve, ovvero di quello riferibile al magistrato candidato che non sia stato eletto». Un Capo la cui impostazione complessiva è ritenuta eccentrica, in quanto «contiene previsioni funzionali a limitare grandemente le scelte professionali del magistrato considerate a rischio di appannamento della sua immagine d’imparzialità, fino ad imporgli una sostanziale scelta a monte tra esercitare il suo diritto a partecipare alla vita politica in prima persona o continuare a svolgere le funzioni giudiziarie». Secondo Area, rappresentata dal togato Giuseppe Cascini, è «pienamente condivisibile» la proposta contenuta nel ddl Bonafede. «Si tratta di tutelare l'immagine di imparzialità e di indipendenza del magistrato che è compromessa anche nel caso in cui un magistrato si candidi nella sede dove presta servizio», ha detto Cascini. Il riferimento, pur senza citarlo per nome e cognome, è al pm Catello Maresca, «un magistrato che esercita la giurisdizione nella città dove è, di fatto e agli occhi di tutti, candidato alla carica di sindaco». L'unico voto contrario a questa parte del parere del Csm è stato espresso da Nino Di Matteo, «perché così come è prospettato il ddl rischia di comprimere indebitamente il diritto del magistrato di scegliere un impegno politico finendo per azzerare la presenza di magistrati in Parlamento, presenza che nel tempo ha fornito un contributo importante». E «il nodo delle commistioni improprie tra politica e giustizia» non si può affrontare «comprimendo il diritto di un magistrato a scegliere di candidarsi ad un un incarico politico». Voto favorevole da parte di Sebastiano Ardita, togato di Autonomia e Indipendenza, che ha definito paradossale il dibattito in cui «ci si occupa in modo formale del problema della candidatura in politica dei magistrati e non si spende neppure una parola sul vero problema che oggi è sotto i nostri occhi: la politica interna alla magistratura, la sua ricerca di consenso, i poteri enormi che determina nelle nomine e la sua capacità di incidere sugli altri poteri dello Stato. Nelle chat di Palamara di questo delicatissimo aspetto c'è tutto, e qui oggi non ho sentito spendere una sola parola su tutto questo». Caduta, inoltre, la censura di incostituzionalità del Csm al ddl Bonafede sulla riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell'ordinamento giudiziario, contenuta nel parere messo a punto dalla Sesta Commissione. È stato infatti approvato un emendamento, sottoscritto da tutti i componenti laici, con il quale si sopprime la premessa del capitolo sulla nuova disciplina sul conferimento degli incarichi direttivi, secondo la quale la scelta del legislatore di cristallizzare in una legge le norme che il Csm si è già dato con una circolare avrebbe determinato «una complessiva limitazione del potere discrezionale del Consiglio» ponendosi «in contrasto» con i principi di autonomia e indipendenza della magistratura e con il ruolo stesso del Consiglio, delineato dalla Costituzione. Approvata invece la parte del parere sulle norme che riguardano l'organizzazione degli uffici giudiziari.