Nelle aule di giustizia avvengono, quotidianamente, fatti che meriterebbero una attenta e profonda riflessione. Uno di questi fatti processuali voglio raccontarvi.

Siamo a Roma e nel quartiere Casilino sono avvenute una serie di rapine in farmacia compiute da un uomo ed una donna e alle volte dalla sola donna. I carabinieri acquisiscono le immagini dei circuiti di videosorveglianza delle farmacie ed un maresciallo si convince di riconoscere in E. F. (iniziali a fantasia) una donna incensurata di 36 anni, la rapinatrice. Gli inquirenti estrapolano la foto della donna dai video e verificano che il fratello della donna, un uomo di 40 anni, ha precedenti per reati contro il patrimonio. Tale circostanza li convince di aver trovato i colpevoli, preparano dunque un album fotografico contenente i ritratti di entrambi i “sospettati” e convocano le persone offese per un riconoscimento fotografico.

Le persone offese riconoscono, “senza ombra di dubbio” nelle foto entrambi i sospettati, quali gli autori delle rapine. I carabinieri li arrestano all’alba di un giorno di fine estate, mentre sono in casa con la madre disabile. È uno shock per fratello e sorella che vivono lavorando saltuariamente come commessa e fattorino è un dramma per la mamma lasciata incustodita in casa. Eppure non è ancora nulla rispetto a quello che sta per accadere: la donna viene condotta nella sezione femminile del carcere di Rebibbia, il fratello viene associato a Regina Coeli.

A inchiodarli ci sarebbero due elementi, entrambi frequenti nella casistica degli errori giudiziari del nostro Paese: le testimonianze. Anzitutto quella di un carabiniere, convinto di avere riconosciuto proprio la donna dalle immagini. In passato, infatti, la donna aveva accompagnato spesso in caserma il fratello sottoposto all’obbligo di firma. In secondo luogo, la testimonianza delle farmaciste, ben sette, che avevano subìto i colpi: sono certe di riconoscere il volto di E. F. e di O. F. nei fotogrammi estrapolati dai video.

Per entrambi, però, ci sono notevoli discrasie tra le descrizioni fornite dei rapinatori dalle persone offese e le loro reali fattezze. Ma il sistema è sicuro “senza ombra di dubbio” che sono colpevoli. Vengo nominato loro legale da entrambi dopo che i loro ricorsi al Tribunale del Riesame di Roma sono stati respinti. Li vado a trovare in carcere e li trovo disperati e prostrati dalla carcerazione preventiva subita. Gridano la loro innocenza e mi supplicano di aiutarli. Presento un incidente probatorio per effettuare una ricognizione di persona da parte delle farmaciste e sollecito una consulenza antroposomatica per entrambi. Tutte le mie richieste vengono respinte perché «superflue allo stato degli atti». I miei assistiti non possono permettersi la nomina di un consulente e quindi ci avviamo al necessario processo.

In cella a Rebibbia la commessa passerà 202 giorni. E subito dopo, altri 40 agli arresti domiciliari. Il fratello trascorrerà in carcere 210 giorni. Intanto, si celebra il processo. Esaminando gli atti, mi accorgo che nella descrizione della rapinatrice fatta prima del riconoscimento fotografico da parte delle farmaciste, queste avevano raccontato di aver descritto una donna mora, robusta, con delle verruche bianche che ricoprivano le mani della malvivente. Ma esaminando la cartella clinica di E. F. al momento del suo ingresso in carcere, venti giorni dopo l’ultimo dei colpi a lei addebitati, mi rendo conto che la donna non aveva verruche, bolle o altre cicatrici sulle mani.

È la svolta. Durante il dibattimento, questo elemento avrà un peso fondamentale per scagionare E. F., ma non sarà l’unico. Le farmaciste vedendo dal vivo in aula i presunti rapinatori manifestano forti perplessità sul fatto che la donna e l’uomo possano essere davvero quelli che le hanno rapinate. A questo punto, la beffa, il Tribunale a distanza di anni e dopo che la difesa l’avesse più volte richiesta senza esito, dispone una perizia antroposometrica. Nonostante le evidenze probatorie a favore il sistema non può permettersi, a cuor leggero, di dichiarare di aver sbagliato.

La perizia non potrà che confermare l’estraneità dei miei “sventurati patrocinati” ed anzi indica il possibile colpevole: «… Gli accertamenti fisionomici svolti su E. F. hanno permesso al perito di osservare una corrispondenza di elementi tra il soggetto ripreso ed un altro individuo presente negli archivi digitali della Polizia di Stato, già coinvolto in una serie di episodi delittuosi simili a quelli in contestazione nel presente procedimento» . E così, a due anni di distanza dal giorno dell’arresto, il Tribunale di Roma assolverà E. F. e O. F. per non aver commesso il fatto. Divenuta irrevocabile la sentenza, entrambi gli sventurati presentano istanza di riparazione per ingiusta detenzione per i mesi trascorsi da innocenti agli arresti, tra carcere e domiciliari.

Proprio in questi giorni entrambi i fratelli sono stati risarciti con decine di migliaia di euro mentre i carabinieri che svolsero le indagini, il pubblico ministero che richiese la misura cautelare e il Gip che la dispose e che respinse le richieste difensive, che avrebbero evitato il carcere a persone innocenti e scoperto il reale colpevole, hanno fatto, comunque, la loro onorata carriera.

Riccardo Radi, Avvocato