Le manovre di contrasto al voto referendario del 12 giugno sono plurilivello e di varia natura. Prima è stata messa in sordina la campagna di raccolta firme, peraltro ostacolata anche dalla pandemia. Poi sui quesiti è calata la scure – a mio avviso, non del tutto “tecnica” – della Corte costituzionale, che ha “bocciato” quelli sull’eutanasia e sulla cannabis, nonché quello sulla responsabilità diretta dei magistrati. Sui referendum è quindi calato un silenzio assordante, che è sembrato a molti una vera e propria congiura del silenzio. Per questo, abbiamo costituito il Comitato “Sì per la libertà, sì per la giustizia” (rinvio al nostro sito, www.unsiperlagiustizia.it, per tutte le informazioni, il form per l’eventuale adesione, e i riferimenti ai vari social). E finalmente qualcosa si è mosso. Dei referendum si parla, anche se ancora poco; ma finalmente la libera informazione – come indicato e garantito dall’art. 21 della Costituzione – si è posta al servizio dei cittadini. Pertanto, come cercherò di spiegare, è cambiata la strategia di chi si oppone ai referendum, e talvolta addirittura allo stesso istituto referendario. Devo tuttavia premettere, in proposito, che la cosa che mi stupisce di più, alla luce dei primi dibattiti ai quali ho partecipato, è che chi pensa di votare no o di astenersi riconosce (quasi sempre) che le questioni oggetto dei quesiti referendari sono reali e serie. Del resto, i “tecnici” della materia non possono certo negare che il nostro “sistema giustizia” funziona male, e tutti conosciamo gli scandali che purtroppo hanno colpito la magistratura, che in tutti i sondaggi ha perso la fiducia della maggior parte dei cittadini. E questo non è certamente un bene, perché la magistratura rappresenta una parte fondamentale dello Stato – «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (art. 104 Cost.) – che va preservata e protetta. Ma, a tale fine, dovrebbe essere per tutti chiaro che è necessario cambiare tutto ciò che non va. Bastino le forti parole del Presidente Mattarella nel discorso per il suo secondo insediamento, in occasione del quale – tra l’altro – ha invocato un «profondo processo riformatore», ha sottolineato le «pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini», ha ammonito che «indipendenza e autonomia sono princìpi preziosi e basilari della Costituzione ma il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza». Perché la giustizia deve essere amministrata «in nome del popolo» (art. 101 Cost.) ed «i cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario». Tuttavia, il discorso del Presidente Mattarella, nonostante gli scroscianti applausi di quasi tutti i parlamentari, non ha avuto reale accoglimento operativo. Quindi, mi stupisce molto che si tessano – ed ecco il cambio di strategia – le lodi (astratte) della supremazia del Parlamento (“le riforme organiche le deve predisporre il legislatore”; peccato sia stato sinora del tutto assente). Oppure che si teorizzi un benaltrismo riformatore (“per cambiare la giustizia ci vorrebbe ben altro…”). O anche che si svilisca l’istituto referendario (che sarebbe “inadatto a risolvere problemi articolati”). O ancora, che si confonda la difficoltà dei quesiti, presente sempre e in ogni caso, perché si abroga un testo normativo, con la possibilità di spiegarli semplicemente a tutti (“il popolo non comprende questioni complesse”). Con queste doverose premesse, provo nuovamente a spiegare i quesiti, naturalmente non per i “tecnici” (che sanno, anche se non riconoscono di sapere), ma per tutti coloro che, non essendo giuristi, vogliono esercitare consapevolmente il diritto di voto, costituzionalmente garantito (art. 75). E assicurato a tutti, compresi coloro i quali non “masticano” diritto. Dunque, due referendum cercano di far ricostruire la perduta fiducia ed efficienza nella giustizia. Il primo ha lo scopo di far votare gli avvocati che siedono nei Consigli giudiziari anche sulle valutazioni di professionalità dei magistrati, consentendo giudizi più articolati e completi, per evitare che poi il Consiglio Superiore della Magistratura decida solo sulla base delle appartenenze del candidato a una corrente. Il secondo propone di cancellare la norma che stabilisce che ogni candidatura al Csm debba essere sostenuta da un numero minimo di firme, per consentire anche ai magistrati non sorretti da una corrente di potersi candidare. Poi ci sono due referendum attuativi di altri princìpi costituzionali. Infatti, l’art. 111 Cost., riformato nel 1999, ha effettuato una scelta univoca, accogliendo il modello accusatorio, ormai decisamente prevalente nelle democrazie più mature ed evolute. Tale modello richiede la presenza di un giudice realmente terzo, di un pm che svolga pienamente il compito dell’accusa e di un difensore in grado di controbilanciare, con la propria attività, quella del pm. Dunque, il terzo referendum vuole evitare il cambio di funzioni tra giudici e pm, e viceversa. Inoltre, nel nostro Paese abbiamo un ricorso troppo ampio alla custodia cautelare, inflitta prima di una eventuale sentenza definitiva di condanna (e la metà dei processi si conclude con una assoluzione…), nei confronti di chi è non è considerato colpevole (art. 27 Cost.) o è presunto innocente (art. 6 Convenzione europea sui diritti dell’uomo). Il quarto referendum mira a ridurre il ricorso alla custodia cautelare. Infine, il quinto referendum vuole restituire la voce ai cittadini, che devono decidere chi è meritevole di essere candidato e di poter essere votato. Ed a tal fine, propone l’abolizione della cosiddetta. legge Severino. Spero di essere stato sufficientemente chiaro. Chi vuole mantenere la situazione attuale non vada a votare o voti no. Chi vuole contribuire a cambiare il volto di una giustizia che tutti riconoscono essere lontana dai cittadini vada a votare. E voti SI. *Ordinario di Diritto penale Università di Palermo, già Csm, vicepresidente Comitato Sì per la libertà, sì per la giustizia