Si dà atto che il magistrato Roberto Scarpinato ha spiegato in maniera più approfondita sul Fatto Quotidiano il contenuto dell’intercettazione riferito in commissione Giustizia della Camera. Risale al 2000, non era Bernardo Provenzano a parlare, non si è parlato di ergastolo ostativo (termine coniato dieci anni dopo) e, almeno secondo il virgolettato riportato, nemmeno di garanzie da parte dello Stato.

L'intercettato era Giuseppe Lipari, l'uomo degli appalti di Provenzano

A essere intercettato era Giuseppe Lipari, l’uomo degli appalti per conto di Provenzano, colui che, quando Borsellino fu applicato alla Procura di Palermo, aveva commentato il fatto dicendo che – come riporta il Borsellino quater - avrebbe creato delle difficoltà a «quel santo cristiano di Giammanco». Il magistrato Scarpinato fa riferimento a un vecchio articolo di Attilio Bolzoni del 6 febbraio del 2001. A questo punto vale la pena ripescarlo. Si dà notizia dell’intercettazione dell’uomo d’affari di Cosa nostra (ora sappiamo che è Lipari) che, qualche tempo prima, aveva partecipato a un summit di mafia convocato da Provenzano. Riferisce a un suo interlocutore che i temi del summit erano due: i soldi di "Agenda 2000" e la situazione dei carcerati.

La strategia del “basso profilo” puntava all’accaparramento degli appalti

Per quanto riguarda il primo, si tratta dei fondi europei sugli appalti. Per questo motivo, dice Lipari, al summit hanno detto «di non far rumore e di non attirare mai l'attenzione perché ci dobbiamo prendere tutta questa Agenda 2000...». Bene. Ecco spiegato intanto il motivo principale della strategia del “basso profilo”: l’accaparramento degli appalti. Poi Lipari, e arriviamo al secondo tema, aggiunge: «e poi bisogna pensare ai detenuti che sperano nell'abolizione dell'ergastolo...». Ecco qui. Si parla della speranza dei detenuti nell’abolizione dell’ergastolo e di evitare che, per altri fatti di sangue, lo Stato reagisca pesantemente come già accaduto. Ma il fine pena mai è un tema da sempre discusso a livello politico. Una questione di civiltà, ma che può essere letta anche in chiave “trattativista”. Non si parla dell’ergastolo ostativo che è ben altra cosa. Ci viene in aiuto proprio Scarpinato nell’articolo de Il Fatto. Spiega che l’anno prima, nel 1999, il Parlamento ha varato la legge numero 479/99. In sostanza, parliamo della legge Carotti (prende il nome del deputato, persona integerrima e per bene, che la propose), che consente l'accesso al rito abbreviato nei procedimenti relativi ai reati punibili in astratto con la pena dell'ergastolo. In tal modo, si poteva ottenere la conversione della pena dell’ergastolo a 30 anni.

Lipari si riferisce all'ergastolo semplice e non all'ostativo

Ebbene, anche i reclusi mafiosi ovviamente decisero di approfittare della opportunità di questa legge. Ci furono polemiche e, nel giro di pochi mesi, la legge fu modificata, escludendo con un escamotage i condannati per mafia. Tale legge, grazie alla Lega, è stata, di fatto, abolita definitivamente nel 2019. Il problema, però, è che la legge Carotti non è frutto di alcun patto, alcuna trattativa. I fatti stessi narrati, la sconfessano.In realtà, forse a Scarpinato è sfuggito che il tema dell’ergastolo era molto discusso in quegli anni. Probabilmente la speranza dei detenuti, ai quali fa riferimento Lipari, risiede in un’altra circostanza. Parliamo dell’ergastolo in quanto tale, non quello “ostativo”. Correva l’anno 1998. Con 107 voti a favore, 51 contrari e otto astenuti l’assemblea di palazzo Madama approvò in prima lettura il disegno di legge per l’abolizione del fine pena mai. Molti degli allora Democratici di Sinistra, Rifondazione Comunista, Verdi, ma anche del Partito Popolare, approvarono con convinzione il provvedimento, portando avanti argomentazioni che oggi sono un lontano ricordo tra i banchi del Parlamento. Come non ricordare la relazione in difesa della proposta di legge fatta da Salvatore Senese, tra i fondatori di Magistratura Democratica, giurista colto e rigoroso, scomparso recentemente nel giugno 2019? E se fosse passata, cosa si sarebbe detto oggi? Letture dietrologiche delle complessità non aiutano e rischiano di creare l’antica prassi reazionaria della paranoia legata alla politica. Nell’articolo de Il Fatto si evocano dei contatti tra l’allora procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna e i boss di Cosa nostra in carcere. E si parla erroneamente di “dissociazione”.  No, le cose sono diverse. Purtroppo l’equivoco nasce dagli articoli dei giornale d’allora. Tra l’altro Vigna non è più tra noi per potersi difendere.

Salvatore Biondino si fece ambasciatore per incontrare Vigna

Ecco i fatti. Salvatore Biondino, ergastolano e figura di spicco della cupola, si fece ambasciatore di altri detenuti mafiosi per incontrare Vigna. Non trattativa, termine abusato, ma si trattò di colloqui investigativi permessi dalla legge. Nessuna dissociazione (altro termine giornalistico uscito all’epoca), ma dichiarazione di voler sciogliere il vincolo associativo riconoscendo l'autorità dello Stato e della legge. In sostanza, visto la crisi interna alla Cupola dopo la sconfitta dell’ala corleonese di Riina, si parlò di un atto di scioglimento dell'organizzazione. Tentativo non andato in porto. Nessuna richiesta di nuove leggi, abolizione dell’ergastolo, nessun patto. Parliamo di colloqui investigativi messi a conoscenza del Dap, dell’allora ministro della Giustizia Piero Fassino (governo Amato II) e delle procure. Lo stesso boss Pietro Aglieri, deponendo al processo Borsellino quater, ha spiegato che - durante il colloquio investigativo con Vigna -, non ha mai parlato di dissociazione, ma di “desistenza”. Nessuna trattativa quindi. L’allora ministro Fassino ha ribadito con fermezza che tutto è avvenuto in modo estremamente semplice e trasparente nell'ambito di normali o straordinarie attività del procuratore nazionale. I fatti dimostrano che nulla è stato toccato. Il 41 bis, come la storia insegna, non solo non sarà ammorbidito, ma anni dopo, con il governo Berlusconi, sarà reso più rigido con la legge del 2009 a firma dell’allora ministro della Giustizia Angelino Alfano. Ma ora ritorniamo con i piedi per terra. Se ogni decisione politica, volta all’idea progressista dell’esecuzione penale, viene letta sotto una chiave “trattativista”, non se ne esce più. C’è il rischio, senza volerlo, che il dibattito si intossichi. Prendiamo ad esempio l’ergastolo ostativo. Sono pochi anni che se ne discute. La svolta si è avuta grazie ai magistrati stessi che hanno sollevato questioni di illegittimità costituzionale relativamente alla parte del 4 bis nella quale la collaborazione con la giustizia viene considerata un parametro assoluto per accedere ai benefici.

Le proposte di legge per la modifica dell’ergastolo ostativo riguardano molti detenuti che non sono boss

In realtà, nasce anche un altro enorme equivoco di fondo. La discussione della proposta di legge per la modifica dell’ergastolo ostativo (il ddl proposto dalla deputata del Pd Enza Bruno Bossio è accolta con favore dai magistrati di sorveglianza, gli unici togati che in commissione Giustizia sono entrati nel merito), pare che sia destinata a boss e capomafia in regime duro. Ma il regime differenziato ha altri parametri più duri. Si parla sempre di loro, mentre ci si dimentica che la stragrande maggioranza di ergastolani ostativi non hanno ruoli apicali e non sono in 41 bis. Si cita nuovamente Giovanni Falcone. Sarebbe bello però ricordare che il giudice stesso, introducendo per la prima volta il 4 bis, aveva previsto la possibilità di concedere i benefici penitenziari anche al detenuto che decide di non collaborare con la giustizia. Ovviamente avrebbe dovuto aspettare molto più tempo rispetto al collaborante. La legge fu resa più restrittiva (e incostituzionale) per reazione alla strage di Capaci. È proprio vero che la Storia insegna, ma non ha scolari. Il gioco del potere lo vediamo nei cosiddetti “dispositivi”, i luoghi totalizzanti evidenziati da Foucault in “Sorvegliare e Punire”.