Sono decenni che il nostro sistema penitenziario sembra non funzionare, sia come organizzazione nel suo complesso che come corretta attuazione di norme nazionali e regole sovranazionali. Allora, delle due una, o si cambia totalmente allenatore e schema di gioco, oppure si sarà costretti a collezionare ulteriori défaillance del sistema, perdendo in tal caso il nostro Paese credibilità e prestigio istituzionale sia nei confronti dei nostri cittadini che nei confronti delle istituzioni internazionali e di giurisdizione europea. Al riguardo, come Cesp (Centro Europeo di Studi Penitenziari), anche a mente di una vision che guardi all’intera Europa o quantomeno all’Ue, siamo sempre più convinti, dopo avere affrontato innumerevoli volte la questione con i nostri maggiori studiosi ed esperti del mondo delle carceri, che una seria possibilità che consenta di recuperare autorevolezza tra i nostri cittadini e credito oltre i nostri confini, nonché ridare funzionalità al sistema, al di là delle eventuali ulteriori riforme che si vorranno realizzare, quindi “rebus sic stantibus”, sia quella di prevedere la migrazione dell’intero Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dal dicastero della Giustizia alla presidenza del Consiglio dei ministri. Non solo per statuire la netta e necessaria cesura, sul piano della gestione amministrativa, tra il potere giudiziario e quello esecutivo, ma anche per rafforzare l’effettivo e indipendente controllo di legalità sulla conduzione delle carceri da parte dei magistrati i quali, invece, oggi, a diverso titolo, sono proprio quelli che le stanno governando, dando vita ad una situazione obiettivamente opaca perché incoerente, per quanto la ministra della Giustizia Cartabia sia ricorsa all’intelligente stratagemma di affidare la direzione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria a un magistrato di sorveglianza piuttosto che, come per il passato, a un procuratore della Repubblica. Al riguardo, stiamo elaborando un progetto di legge che metteremo a disposizione dei parlamentari dei diversi schieramenti, ove intenderanno adottarlo ed eventualmente migliorarlo e modificarlo, per poi presentarlo come disegno o proposta di legge.La migrazione del solo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (acronimo Dap) dall’attuale dicastero alla presidenza del Consiglio dei ministri, sarà immaginata sulla falsariga di quelli del Dipartimento della Protezione civile e del Dipartimento delle Politiche antidroga, talché le importanti tematiche, e le notorie complessità che ne derivano, siano affrontate in termini coerenti e sistemici, di fatto interdisciplinari, dai diversi ambiti e competenze governative e non, come adesso, chirurgicamente mutilate e di fatto derubricate, affidandole a vertici solo nominalmente amministrativi ma in realtà provenienti e incardinati nella funzione giudiziaria dove, alla fine degli incarichi, ritorneranno. L’esperienza finora fatta nel governo delle carceri, attribuita dal 1923 al ministero della Giustizia, infatti, ha dato vita ad un contesto amministrativo ibrido e innaturale, il quale, invece di favorire, ai sensi dell’art. 47, comma 3° della nostra Costituzione, la progressiva e piena realizzazione delle finalità della Carta, ne ha determinato proprio il suo opposto, nonché ridotto il Dap in un foro privilegiato di appetiti carrieristici da parte della stessa magistratura, dimenticandosi che la gestione delle carceri richieda, assolutamente, grandissime capacità manageriali che potrebbero essere ingaggiate dal mondo dell’alta dirigenza pubblica e perfino da quella del mondo privato, perché quest’ultime, a differenza di quanti svolgano funzioni giudiziarie requirenti e giudicanti, sono addestrate nella gestione di organizzazioni articolate e apparati e sono abituate a rendere conto, ai loro ministri o ai loro azionisti, insomma, ne risponderebbero in caso di mala gestio per incapacità del management togato. Attraverso il progetto che si sta elaborando, inoltre e non da ultimo, si rientrerebbe, finalmente, all’interno della cornice delle regole penitenziarie europee, le quali recitano, nella Parte V – Direzione e Personale – Il Servizio Penitenziario come servizio pubblico – punto 71. “Gli istituti penitenziari devono essere posti sotto la responsabilità di autorità pubbliche ed essere separati dall’esercito, dalla polizia e dai servizi di indagine penale”. Le ragioni di questa clausola di salvaguardia democratica sono intuibili e di tutta evidenza, perché finalizzate ad assicurare la contemplata, e finora disattesa, distinzione del sistema penitenziario italiano dagli ambiti pubblici concorrenti afferenti la giustizia, le forze armate, i corpi di polizia; evitandosi quindi i maggiori rischi di contaminazioni e opacità e, soprattutto, di irresponsabilità che, verosimilmente, sono alla base delle criticità in premessa. Non comprenderlo sarebbe allarmante, perché sono decenni che il sistema penitenziario italiano risulta gestito, al massimo livello, sempre ed esclusivamente, da magistrati.Ciononostante, non si ricordano critiche e imputazioni di responsabilità amministrative, nonostante la massa consistente di risorse umane, finanziarie e strutturali impegnate dallo Stato in tale importante e strategico settore dell’organizzazione pubblica, il quale tratta materie amministrative “incandescenti”, allo stato puro, perché innervate anche con fondamentali attività che attengono pure la competenza di altri ministeri e di una pluralità di enti pubblici, ivi comprese le Regioni (ad es. in materia di sanità e formazione professionale dei detenuti, solo per fare qualche piccolo esempio), che gli stessi enti locali.Con il progetto di legge, tra l’altro, non si intendono assolutamente indebolire le esigenze di sicurezza e di ordine pubblico, le quali, al contrario, ne trarrebbero solo un sicuro rafforzamento, per quanto il carcere rimanga, agli occhi del legislatore costituzionale e nella normazione europea, per sua intrinseca natura, altra cosa rispetto alle logiche della giurisdizione e dei processi. La commissione di eventuali reati in ambito penitenziario, infatti, continuerà ad essere perseguita, così come si opererà in tema di prevenzione e contrasto verso gli stessi, non dissimilmente da come già accada in qualunque contesto pubblico, risultando indifferente, di fronte alla violazione delle leggi penali, se non addirittura circostanza aggravante, che il locus commissi delicti sia una scuola, un ospedale, una caserma o qualunque altro ufficio pubblico, essendo tutti tenuti al rispetto delle leggi penali e non solo a quelle.Pertanto, di fronte a ipotesi di reati o alla loro commissione, dovranno essere immancabilmente adottate dai pubblici ufficiali e da quanti svolgano un pubblico servizio, operanti a qualunque titolo nella generalità delle articolazioni amministrative del Dap, tutte le procedure contemplate, dalle quali potranno scaturire attività info-investigative e giudiziarie, non attuandosi alcun stravolgimento di norme di diritto penale sostanziale e processuale. Se il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria divenisse una struttura della presidenza del Consiglio dei ministri, con a capo un general manager ingaggiato tra i dirigenti generali penitenziari di carriera, oppure tra quelli di altre amministrazioni esperiti nel governo di strutture complesse e articolate, perché semmai proveniente del ministero della Salute, oppure da quello della protezione civile, o dagli interni, o da quello del lavoro, se non anche delle Infrastrutture, oppure del welfare e finanche del mondo del volontariato strutturato, se non pure da quello dell’avvocatura, etc., certamente si conseguiranno migliori concreti e misurabili risultati rispetto a quanto accada oggi. E non da ultimo, attraverso i propri apparati securitari riservati, che trovano nel Consiglio dei ministri, uno dei maggiori responsabili, quale il sottosegretario “Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica”, si potrà proficuamente valorizzare il grande patrimonio informativo che il carcere, con le sue comunità, può offrire; una ricchezza di notizie che, proprio per il suo potenziale, andrebbe necessariamente gestita e lavorata dal governo nel proprio complesso e non lasciata, come avviene oggi, nella sostanziale esclusiva disponibilità di un solo potere, il quale, al contrario, dovrebbe soltanto conoscere di reati, attraverso atti qualificati e circostanziati di polizia giudiziaria, nel rispetto del principio, cardine delle democrazie, della divisione dei poteri. Insomma, la migrazione del Dap potrebbe pure, e positivamente, incoraggiare un maggiore apprezzamento della stessa magistratura, esaltandone l’effettiva terzietà ed indipendenza, oltre che favorire, nell’esercizio della cosa pubblica, i principi di imparzialità e di buona amministrazione. Enrico sbriglia, Presidente Onorario del CESP Alessandro De Rossi, Vice Presidente del CESP