Non di rado, nei pressi delle stazioni metropolitane, trovano rifugio dei
senza fissa dimora che sono appena usciti dal carcere. Ritornano ai margini della società, ma con uno stigma maggiore perché sono ex detenuti. Parlare del “dopo”, di quando il cancello si chiude dietro le spalle e si è fuori, nel mondo “libero”, è un argomento complicato, dove risulta facile scoraggiarsi e perdersi fra tutti i problemi che si riscontrano nel fine pena, cioè in quella fase della vita di un detenuto che dovrebbe rappresentare invece la fine del "problema dei problemi", la carcerazione.
Il fine pena è la gioia per la fine di un incubo, ma in mancanza di punti di riferimento, può rappresentare anche l’inizio di un altro incubo dove la prima alternativa che si ha di fronte, è la strada.
Non esistono statistiche sugli ex detenuti senza fissa dimora
Non esistono statistiche dettagliate sul percorso post-carcerario, né un’indagine significativa del comportamento tenuto dai dimessi. I cosiddetti “eventi critici”, suicidi, tentati suicidi, atti di autolesionismo: vengono monitorati dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria per la popolazione detenuta, ma che cosa succede poi agli ex detenuti non interessa quasi più a nessuno. Gli eventi critici, sono spesso raccontati dagli ex compagni di cella, oppure i volontari del carcere che avevano creato un legame con i detenuti. Si tratta di
suicidi, a volte morti violente, morti per overdose, emarginazione totale con conseguente abuso di alcool e droghe, commissione di nuovi reati, vite ai margini nelle schiere dei senza fissa dimora, tutte situazioni per le quali a volte l’unica soluzione sembra tornare ad accettare di ritornare a delinquere. Un dato è certo. Chi esce senza alcun punto di riferimento, sono quei detenuti che sono “marciti in galera”, senza usufruire l’affidamento in prova dove il detenuto viene costantemente seguito e monitorato dagli assistenti, oppure la semilibertà ex art. 21 dove avviene una graduale preparazione all’impatto con la società esterna.
Le misure alternative dimezzano la recidiva
Le misure alternative alla pena, non a caso, dimezzano la recidiva. Quei benefici che però, grazie anche ai mass media, vengono percepiti come lassismo, buonismo, impunità. I detenuti più vulnerabili – come ha da sempre denunciato il Garante nazionale delle persone private della libertà -
sono coloro che vivevano già ai margini della società. Un tema che solleva perplessità sull’effettiva capacità del carcere di reinserire e rieducare il soggetto detenuto “homeless” anche al momento dell’uscita dall’istituto penitenziario. La mancanza di un alloggio, in questa fase estremamente delicata, comporta che il soggetto, di fatto abbandonato, percepisca maggiormente l’essere emarginato dalla società.
È fondamentale preparare alla vita esterna
Ecco quindi che diviene fondamentale una “preparazione” alla vita esterna nell’ultimo periodo di detenzione e un sostegno, anche economico, volto alla ricerca di un alloggio. Uscendo dal carcere senza alcuna meta a causa di un’inadeguata preparazione alla vita sociale, l’ex detenuto si potrebbe ritrovare con deboli mezzi economici, relazioni sociali mozzate e lo stigma che renderebbe assai ardua la ricerca del lavoro e della casa.
La disponibilità di un alloggio assume un’importanza fondamentale non solo nella fase preliminare e successiva alla scarcerazione, ma diventa anche un’importante opportunità per scontare la propria pena al di fuori delle mura carcerarie.Il problema del fine pena che spalanca le porte di nuovo nella strada è di primaria importanza.
Roberto Giachetti ha presentato una interrogazione sulla mancata costituzione dei Cas
Ricordiamo che giace da tempo una interrogazione parlamentare rivolta alla ministra della giustizia Marta Catabia che ha come primo firmatario il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, per chiedere contezza della mancata costituzione dei
Consigli di aiuto sociale (Cas) che hanno la finalità istituzionale di assistere i detenuti, in particolar modo quelli che finiscono di scontare la pena, aiutandoli a risolvere i problemi familiari. Ne parlò l’esponente del Partito Radicale Rita Bernardini durante la trasmissione di Radio Radicale “Radio carcere”. A ottobre scorso, il neopresidente del Tribunale palermitano Antonio Balsamo (il già presidente della Corte d’Assise di Caltanissetta che acclarò il depistaggio di Via D’Amelio con la sentenza di primo grado del Borsellino Quater) ha costituito il primo Cas d’Italia a Palermo.
I Cas esistono sulla carta dal 1975
Eppure, questo istituto esiste sulla carta fin dal 1975. Nell’interrogazione parlamentare si premette che diversi articoli della legge sull’ordinamento penitenziario, fanno tutti riferimento alla costituzione – presso il capoluogo di ciascun circondario – dei “Consigli di aiuto sociale” ai quali sono affidati una serie di importanti compiti relativi all’assistenza penitenziaria e post – penitenziaria. «Ad avviso dell’interrogante – si legge nell’interrogazione – questi enti, dotati di personalità giuridica e sottoposti alla vigilanza del ministero della giustizia, sono fondamentali per corrispondere al dettato costituzionale di cui all’articolo 27 e relativo all’inserimento sociale delle persone detenute e per far fronte al soccorso e all’assistenza delle vittime del delitto». Potrebbe essere fondamentale che lo Stato si prenda in carico questo problema del fine pena. Ma a questo, va aggiunto anche un altro problema al livello locale da risolvere. Nelle più grandi città d’Italia, dove logicamente si concentra il problema,
si rendono necessarie strutture ospitanti, quali dormitori, comunità alloggio, centri residenziali, case-famiglia, che accolgano le persone in misura alternativa o che finiscono di scontare la pena. Sui territori la presenza di associazioni ed enti comunali preposti alla gestione di simili strutture si registra in numero assai ridotto rispetto alle reali esigenze. Meno carcere, più misure alternative e più assistenza per le persone vulnerabili.