Un ordinamento penitenziario che consente o soltanto tollera, ritenendolo legale e legittimo, un sistema penitenziario, quello delle carceri italiane, che, negli ultimi venti anni, ha generato, mediamente, un suicidio ogni settimana può ritenersi distante dalla pena di morte? Il pensiero della pena di morte è solo apparentemente distante dal nostro stato di diritto; riflettiamo: oramai siamo indifferenti rispetto alle continue morti nelle carceri italiane. E allora, siamo certi di non essere pronti ad accettare l’idea di un carcere incostituzionale, di un carcere tortura, di un carcere che è pena di morte? Sia chiaro: lo Stato ha certamente il diritto e il dovere di differenziare i regimi detentivi in ragione della gravità dei reati commessi dal detenuto e dalla ritenuta, accertata, sua pericolosità (anche se più di qualche riserva residua sulla compatibilità tra regimi “duri” e presunzione di non colpevolezza). Ma questo elementare principio di sicurezza non ha nulla a che fare con le regole odiose, violente, non di rado irragionevolmente sadiche che connotano taluni regimi penitenziari e che le rendono vicini alla tortura.

Il fallimento dell’articolo 27 comma 3 della Costituzione è il fallimento di una intera società, perché se di carcere si continua a morire vuol dire che il carcere è tortura; che il carcere è pena di morte. Il sistema penitenziario è divenuto oramai una sorta di circo, non di circuito, in cui, però, non esistono trampolieri e pagliacci, ma soltanto gabbie che trattengono esseri umani che, con cadenza settimanale, si arrendono alla vita; si suicidano nelle gabbie. La silenziosa strage del nostro sistema carcerario, di cui sempre meno si parla e di cui nulla o poco si vede, perché ciò che non appare non esiste. Ecco il senso delle manifestazioni su questo tema. Per generare sensibilità sulla 31ª vittima che, in questo 2024, porta a 1761 le morti per suicidio nelle carceri italiane negli ultimi trent’anni, senza dimenticare le ulteriori 2910 morti carcere per altre cause, tra cui malattie, omicidi e cause da ancora da accertare. Insomma, possiamo e dobbiamo affermare che, con 4660 morti in carcere negli ultimi trent’anni, il nostro sistema penitenziario non è solo fatto di celle ma di camere mortuarie. Cosa fare? Abbiamo il dovere di costringere democraticamente le istituzioni il mondo politico ad ammettere che il carcere, come oggi divenuto, costituisce la deriva dei diritti umani nonché ad ammettere, anzi a confessare, che l’articolo 27 della costituzione è, allo stato, un modo di dire, di apparire, utile soltanto a calmierare e calmare le coscienze dinanzi all’oltraggio di decessi per suicidi nelle nostre carceri.

Solo in questo modo potremmo rifuggire da un approccio connotato da grave ignoranza costituzionale rispetto alla funzione della pena declinata nella costituzione. Occorre che le Istituzioni si rivolgano all’uomo e non al delitto. È giunto il momento in cui lo Stato di diritto, primo tra tutti, deve ammettere che il carcere, così divenuto, è tortura. Che questo carcere è incostituzionale. Perché questo carcere è pena di morte.