Ennesima prova che potrebbe scagionare Medhanie Tesfamariam Berhe, un giovane eritreo che è in carcere da più di un anno con l’accusa da parte della Procura di Palermo di essere ' il generale' eritreo Medhanie Yehdego Mered, il pericoloso trafficante che sulla pelle dei migranti ha guadagnato una fortuna. I legali del giovane eritreo hanno ritrovato, in Svezia, il figlio del vero Mered e risulta che il suo Dna non è compatibile con lui. Parliamo di un eclatante caso giudiziario seguito passo passo da Radio Radicale, in particolar modo dal conduttore radiofonico Sergio Scandura.

Il procedimento contro il 29enne eritreo si sta svolgendo davanti la Corte d’Assise di Palermo presieduta dal giudice Alfredo Montalto, la stessa Corte che recentemente ha condannato al processo di primo grado gli ex vertici dei Ros e l’ex senatore Marcello Dell’Utri per la presunta trattativa Stato– mafia. Diverse sono le prove che dimostrano un clamoroso scambio di persona. Diverse testate, soprattutto internazionali, si sono occupati della vicenda per dimostrare la sua innocenza. In particolare, tre giornalisti americani del Wall Street Journal, grazie a una loro inchiesta, erano riusciti a contattare il vero boss delle tratte che vive in liber- tà in Uganda. Il Wall Street Journal non indica la data del contatto l’africano ma scrive che «ha contattato l’uomo tramite messaggi in chat facendo riferimento ai documenti che attestano per il tribunale quella che sarebbe la reale pagina di Facebook di Mered Medhanie Yedhego». Così si chiama il boss detto anche “Il Generale” che organizza tratte lungo la direttrice che collega il Corno d’Africa alla Libia e da lì in Italia. Lui ai giornalisti americani sostiene: «Ero convinto che l’avrebbero ri- lasciato in poco tempo. Loro sanno che non si tratta del vero Medhanie» . I giornalisti del Wall Street Journal scrivono che ci sono dozzine di testimoni che sostengono che «l’uomo dalla faccia di bambino non è il contrabbandiere». Il Mered contattato spiega: «Ero negli affari tra il 2013 e il 2015». E continua: «Non ho una residenza fissa, mi muovo da un Paese all’altro». Secondo Facebook si troverebbe adesso in Uganda. Insomma, grazie anche a questa inchiesta, i dubbi sull’operazione coordinata dalla Procura di Palermo con il supporto della National Crime Agency inglese che portò all’arresto dell’eritreo, si addensano sempre di più e si rafforza sempre di più l’idea che potrebbe esserci stato effettivamente uno scambio di persona. Qualche mese fa anche i giornalisti del quotidiano inglese The Guardian hanno messo in luce l’altra verità che i magistrati inquirenti non vorrebbero vedere: hanno pubblicato un estratto da una chat del profilo Facebook di Mered in cui il trafficante stesso afferma che gli investigatori «hanno fatto un errore con il suo no- me. Tutti sanno che non è un trafficante e spero che venga rilasciato». Sempre The Guardian ha contattato e intervistato Li- È Tesfu, indicata dalle carte della procura come la moglie del “Generale”, che senza esitazioni ha affermato che l’uomo sotto processo a Palermo non è suo marito. Anche dalle udienze in tribunale erano emersi altri elementi a favore dell’imputato. Come la sua carta di identità validata dalle autorità eritree, la ricostruzione dei suoi movimenti tra Eritrea e Sudan grazie ai collegamenti al suo profilo Facebook. E soprattutto la testimonianza di Seifu Haile, un eritreo detenuto a Roma e condannato per traffico di esseri umani: per mesi Haile ha lavorato in Libia a fianco del vero Mered e nemmeno lui ha riconosciuto il giovane detenuto a Palermo.

Ma niente da fare, nonostante tutte le prove, comprese l’ultima relativa al Dna, il processo continua e l’imputato continua a considerarsi un semplice rifugiato che era in attesa di lasciare il Sudan – dov’è stato arrestato dagli agenti inglesi e italiani – per approdare in Libia e da lì salire a bordo di un barcone alla volta dell’Europa. Alla fine il sogno di approdare in Europa si è realizzato, ma mai si sarebbe aspettato di essere accompagnato qui per finire in un penitenziario con l’accusa di essere uno spietato criminale.