PHOTO
Don Vincenzo Russo, ex cappellano di Sollicciano
Sempre più si sentono voci che si alzano dall’universo carcere e giustizia per porre all’attenzione dell’opinione pubblica il tema della drammatica condizione nella quale versano i detenuti rinchiusi negli istituti italiani. Tanti i problemi, troppi, per un sistema ormai al collasso e che, nonostante ciò, rimane in vita inalterato producendo morti con il trascorrere dei giorni. Ogni ora che passa è un tempo infinito di tormento e lesione della dignità per tante persone che, anche per cause di certo non estranee alle mancanze e alle contraddizioni della nostra attuale società, sono ammassate in sovrannumero in luoghi dove, come essi temono, sono confinati quasi per essere dimenticati e puniti. Inutile dire che tante, troppe volte, le comunicazioni che appaiono nei vari organi di stampa lasciano trapelare, nemmeno troppo velatamente, un sentimento di vendetta profondo, agli occhi del quale, evidentemente, il carattere puramente afflittivo della pena così come oggi si sconta, non può apparire del tutto fuori luogo e inopportuno.
Tra le tante voci che si alzano per denunciare il problema e che per fortuna non mancano ( Camere penali, magistrati, esponenti politici, associazioni di volontariato ecc) si sente però una stonata assenza. È quella di una voce che, invece, proprio per la sua natura e finalità, ci si aspetterebbe di sentire con forza ed in prima fila. Mi riferisco alla voce dei cappellani del carcere nel loro insieme e, particolarmente, a quella di tutta la struttura che ne presiede il coordinamento e li rappresenta: l’Ispettorato Generale dei cappellani penitenziari.
Proprio chi è vicino, ogni giorno, alle persone detenute e le accompagna nei loro difficili percorsi, non può non essere completamente immerso nel dramma in cui vivono e non può non inorridire di fronte alle ripetute violazioni di diritti e dignità che subiscono. Chi annuncia la vita, una vita da difendere ad ogni costo perché sacra e dono di Dio, non può non ingaggiare un duro confronto con tutto quanto, invece, va in direzione contraria.
Eppure, senza minimamente sminuire l’importante servizio reso da ogni singolo cappellano, che certamente sa farsi vicino alle persone cui è inviato, non sento una voce unica, strutturata ed autorevole che, in rappresentanza di questa figura, si alzi per denunciare ciò che accade e per chiedere con vigore immediati interventi.
L’Ispettorato Generale, sul tema, appare proprio silente. Non ho memoria di pronunciamenti, di interventi, di fatti concreti attraverso i quali questa struttura – appunto solo struttura! – abbia affermato con forza quanto per prima essa dovrebbe servire, cioè l’inviolabilità della dignità umana e l’inaccettabilità di condizioni e trattamenti disumani all’interno del carcere. Chi per vocazione annuncia l’amore e il perdono, come può tacere quando a trionfare sono la vendetta e la distruzione dell’altro? Chi per sua missione porta la vita, come può rimanere in silenzio o comunque sottotraccia, quando questa è calpestata per mezzo di situazioni umilianti capaci di condurre persone alla morte? Quanto è sconcertante l’elefantiaco e ipocrita modo di agire delle Istituzioni quando, nate per essere al servizio di una causa importante, finiscono per trovare nel proprio esistere e autoconservarsi le ragioni del proprio operare. Questo non sarebbe mai dovuto accadere per l’Ispettorato!
Proprio così. È inaccettabile che manchino azioni serie, determinate e coraggiose in favore delle vittime vere del sistema carcere, che sono i poveri lì stritolati all’interno in un ammasso soffocante, mentre abbondano, semmai, incontri paludati e cortesie istituzionali nei luoghi dove si prendono le decisioni e, così facendo, non si agisce per affrontare realmente il problema.
Tutto questo sembra proprio andare in direzione contraria alle indicazioni, coraggiose e forti, che Papa Francesco ripetutamente dà alla Chiesa nel suo insieme, una Chiesa chiamata a farsi vicina ai poveri, a vivere nei luoghi della povertà per portare lì il suo annuncio, ad ogni costo. Non c’è posto, ci ricorda sempre il Santo Padre, per atteggiamenti volti a servire posizioni di privilegio e ambizioni personali, ma solo per un esclusivo servizio a chi ogni giorno fa i conti con ingiustizie e sofferenze.
Le visite del Pontefice in alcuni istituti di pena hanno incontrovertibilmente detto ciò che è cristianamente scontato; al centro delle attenzioni vi devono essere i detenuti, non le strutture di governo. Così, ad esempio, se si organizzano convegni sul tema carcere sono loro a dover intervenire ed essere considerati protagonisti di ogni riflessione. Eppure, nei convegni nazionali organizzati dalla Cappellania Penitenziaria, proprio i detenuti e la loro voce sono mancati, mentre hanno abbondato illustri rappresentanti della gerarchia ecclesiastica e del potere politico.
Non so se, nell’Ispettorato, si dà prevalenza e giusto risalto a quella cultura dello spirito che deve necessariamente guidare ogni operato che possa dirsi cristiano, o piuttosto non si lasci campo ad una sottocultura che, di cristiano, ha solo la veste e, in realtà, è più strettamente ancorata a piccolezze umane. Tutto questo si rende evidente allorché manca una vera partecipazione e vicinanza alle condizioni dei detenuti e anche il necessario sostegno all’attività dei singoli cappellani, troppe volte lasciati soli contro le avversità del sistema e non aiutati quando colpiti dalle violente reazioni di quest’ultimo, capace di allontanare per ridurre al silenzio distruggendo la voce scomoda. Se l’Ispettorato non è vicino ai detenuti, ai cappellani e a tutti gli altri operatori che lavorano in carcere – cominciando dagli agenti di polizia penitenziaria – quale la sua funzione allora?
Non voglio emettere giudizi verso le persone ma solo esprimere una sensazione generale, che preoccupa, perché fa mancare nel sistema carcere la forza di una rappresentanza autorevole quale potrebbe essere quella della cappellania. Quest’ultima appare oggi significativamente indebolita, complice anche, probabilmente, la scelta delle persone chiamate a far parte dei vari consigli, non fondata sull’impegno ed il carisma ma sulla opportunità di costituire rappresentanze sterili, facilmente gestibili, non interessate a dare scossoni a tutto il sistema e a rompere i delicati equilibri. Aggiungo un’amara riflessione. Negli ultimi mesi, con il contributo della Cei, sono stati donati ad alcuni istituti dei ventilatori, quale sostegno ai detenuti nell’affrontare gli infernali mesi estivi in mezzo a temperature che, nelle carceri, si fanno davvero roventi. Ben vengano i ventilatori, ma questi non siano solo quelli che muovono l’aria! Giunga, piuttosto, una ventilata di dignità, che allontani il clima asfissiante di abbandono e di morte, una ventilata capace di portare vita e speranza. Quasi inutile donare oggetti che muovono un’aria destinata a rimanere stagnante, per creare una torbida illusione di sollievo; ben più importante è introdurre in carcere la forza di una vita rigenerata, un cambiamento che ponga fine ad un sistema che, oltre ad essere inutile, è profondamente ingiusto.
La voce che sento assente non può assolutamente mancare. È vero, dire con forza ciò che è in verità, porta a contrarietà ed esclusioni, come ho provato su di me subendo l’allontanamento dal mio servizio quale cappellano. Ma non vi è alternativa. Ogni altro atteggiamento è complicità con un’istituzione che genera morte.