Attualmente ci sono oltre settecento reclusi al 41 bis, dove la maggior parte di essi non sono capi mafia, ma pura manovalanza. Senza dimenticare il caso di Alfredo Cospito, un anarchico individualista che – come si evince dalle motivazioni della sentenza di assoluzione del processo Bialystok – non è capo di nessuna organizzazione. Sì, perché la federazione anarchica informale non è una associazione dove ci sarebbero dei sottoposti, ma un “metodo”. Ma come mai questo continuo ricorso al 41 bis che, ricordiamo, dovrebbe essere una misura del tutto eccezionale? Una spiegazione l’ha data già nel 2021 il segretario generale della Uil polizia penitenziaria Gennarino De Fazio in commissione antimafia: «Sempre più spesso si ha la sensazione che si ricorra all’applicazione dell’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario proprio perché l’Alta Sicurezza non offre sufficienti garanzie».

Per i reclusi, non boss o capi terroristi, ma “manovalanza” appartenente ai gruppi criminali, esiste già il regime differenziato. Parliamo appunto dell’alta sicurezza (AS). Come si evince da rapporto tematico redatto dal garante nazionale delle persone private della libertà, tali sezioni del circuito AS sono state istituite con il «compito di gestire i detenuti e gli internati di spiccata pericolosità, prevedendo al proprio interno, tre differenti sotto- circuiti con medesime garanzie di sicurezza e opportunità trattamentali».

Esse sono definite con un Atto amministrativo e non con una norma di carattere primario. La decisione di prevedere tre sotto- circuiti nasce, nel 2009, dall’esigenza, specificata nella citata circolare, di rispondere alla eterogeneità dovuta alle differenti connotazioni di natura criminale alla base della presenza delle persone nell’allora circuito “Elevato indice di vigilanza”, da quel momento sostituito dal circuito dell’Alta sicurezza.

Cosa ha denunciato il segretario generale della Uil pol pen? In sostanza, si ricorre sempre più spesso al 41 bis, perché i circuiti AS «non offrono più adeguate garanzie soprattutto a riguardo dell’interruzione dei collegamenti con l’esterno, ma pure rispetto ai traffici interni alle carceri». Quindi cosa ha proposto per ridurre il ricorso al carcere duro (che sulla carta “duro” non dovrebbe però essere)? «E’ dunque necessario ripristinare adeguati

livelli di sicurezza degli altri circuiti attraverso il potenziamento degli organici della Polizia penitenziaria e la dotazione e l’efficientamento di strumentazioni ed equipaggiamenti, ma anche mediante una nuova organizzazione complessiva che richiede riforme strutturali e urgenti».

Appare quindi che la magistratura abbia questo tipo di percezione e per questo indica sempre più spesso al ministero della giustizia il 41 bis. Ma se così fosse, viene meno la ratio di tale istituito che non può essere dato con estrema facilità visto il suo carattere – almeno sulla carta – eccezionale. Non solo. Va contro alcune sentenze della Corte costituzionale. La Consulta, nella sua sentenza n. 376 del 1997, ha espressamente detto che i ricorsi al 41 bis devono essere «concretamente giustificati in relazione alle predette esigenze di ordine e sicurezza».

Poiché – afferma la Corte – «da un lato, il regime differenziato si fonda non già astrattamente sul titolo di reato oggetto della condanna o dell'imputazione, ma sull'effettivo pericolo della permanenza di collegamenti, di cui i fatti di reato concretamente contestati costituiscono solo una logica premessa; dall'altro lato, le restrizioni apportate rispetto all'ordinario regime carcerario non possono essere liberamente determinate, ma possono essere – sempre nel limite del divieto di incidenza sulla qualità e quantità della pena e di trattamenti contrari al senso di umanità – solo quelle congrue rispetto alle predette specifiche finalità di ordine e di sicurezza».

La Corte quindi è giunta alla conclusione che «non vi è dunque una categoria di detenuti, individuati a priori in base al titolo di reato, sottoposti a un regime differenziato: ma solo singoli detenuti, condannati o imputati per delitti di criminalità organizzata, che l'amministrazione ritenga, motivatamente e sotto il controllo dei Tribunali di sorveglianza, in grado di partecipare, attraverso i loro collegamenti interni ed esterni, alle organizzazioni criminali e alle loro attività, e che per questa ragione sottopone – sempre motivatamente e col controllo giurisdizionale – a quelle sole restrizioni che siano concretamente idonee a prevenire tale pericolo, attraverso la soppressione o la riduzione delle opportunità che in tal senso discenderebbero dall'applicazione del normale regime penitenziario». L’abuso è chiaro. Il caso Cospito è il massimo esempio di tale stortura applicativa.