«Fortunatamente, il Covid non ha prodotto i danni inizialmente temuti. Tuttavia, l’importante penetrazione del virus in alcuni Istituti e la quasi totale assenza in altri dimostra chiaramente la mancanza di linee organizzative minimamente omogenee nel sistema». Così evidenza Luciano Lucanìa, Presidente della Società italiana di medicina penitenziaria (SIMSPe), durante il Tavolo Tecnico Istituzionale e Interdisciplinare “Sanità Penitenziaria. Quale futuro?” di giovedì scorso, organizzato con il contributo non condizionato di Gilead Sciences in apertura del congresso SIMSPe a Roma.

Com’è noto, la SIMSPe si confronta da anni con un sistema quale quello penitenziario italiano estremamente complesso, in cui ogni anno transitano oltre 100mila persone, alle quali deve essere costituzionalmente garantito il diritto inalienabile alla salute. Questo obiettivo già di per sé non è semplice visto il contesto di riferimento; si è poi ulteriormente complicato da tredici anni a questa parte, a seguito del Dpcm 1/ 4/ 2008, che ha trasferito questa competenza al Servizio Sanitario Nazionale, generando un sistema disomogeneo, reso ancor più intricato dal riferimento a due dicasteri, Giustizia e Salute. Le difficoltà emerse in questi anni si sono palesate con estremo vigore durante la pandemia, che ha messo a nudo i limiti di questa organizzazione e hanno posto come sempre più urgente un intervento legislativo sul tema.

«Non è facile far coesistere nello stesso ambiente – ha proseguito Luciano Lucanìa durante il tavolo -, con l’obiettivo di gestire le stesse persone, l’azione di due amministrazioni così profondamente differenti come quelle riconducibili ai ministeri di Giustizia e Salute. Troppo spesso si finisce per lasciare l’organizzazione dei 190 Istituti Penitenziari italiani alla buona volontà di chi vi opera. Il messaggio lanciato da SIMSPe riguarda la necessità di favorire il dialogo tra le due amministrazioni, possibilmente con una Legge quadro che tracci i contorni organizzativi della Sanità penitenziaria in modo omogeneo sia all’interno delle Regioni che in ogni singolo Istituto».

Ha evidenziato l’infettivologo e direttore scientifico della SIMSPe Sergio Babudieri: «Il carcere è un ambiente complesso su cui hanno competenza due dicasteri diversi, Giustizia e Salute, per tutelare un doppio. Queste amministrazioni non sono coordinate: la nostra richiesta è che inizino a collaborare e che vi siano presupposti normativi che consentano di affrontare in maniera dettagliata tutti gli aspetti organizzativi negli istituti penitenziari. La riforma del 2008 ha trasferito le competenze dal ministero della Giustizia a quello della Salute, quindi il controllo della sanità penitenziaria è passata dal Dap che governa tutti gli istituti penitenziari alle singole regioni: per garantire alle persone detenute una qualità dell’assistenza sanitaria pari ai liberi cittadini, il prezzo pagato è stato la perdita dell’unicità del sistema».

Quello che il professor Babudieri denuncia, è che nelle carceri italiane manca uniformità anche solo nei contratti del personale medico, infermieristico e tecnico. «Il sistema è altamente disomogeneo anche all’interno delle stesse regioni. Il Decreto aveva istituito degli osservatori regionali per la tutela della salute in carcere, ma solo poche regioni particolarmente virtuose come Emilia- Romagna, Toscana e Lombardia si sono organizzate; manca un approccio sistematico», ha concluso. Il contesto della sanità penitenziaria è estremamente difficoltoso. Il controverso equilibrio normativo che condiziona la sanità penitenziaria si inserisce in un quadro con risvolti sociali altrettanto complessi. «La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la frammentazione, la mancanza di adeguate normative forti sono elementi che lasciano la sanità penitenziaria in un guado – ha spiegato ancora Lucanìa –. La pandemia ne ha rilevato non solo l’intrinseca fragilità, ma anche le prospettive assolutamente incerte per il domani. Mancano figure professionali adeguate alla sanità carceraria, ma soprattutto una visione comune di cosa debba essere la medicina penitenziaria all’interno del sistema».

Secondo la SIMPe è necessaria anzitutto una legge quadro, che dica alle regioni quali sono i requisiti minimi, i Lea, che vanno assicurati all’interno delle carceri. «Non è possibile che ogni regione eroghi servizi differenti: un livello minimo deve essere garantito e uniformato. Ogni azienda sanitaria è fatta da unità operative, che siano complesse, semplici o dipartimentali e sono modulate in base a quello che fanno; il carcere non può sfuggire a questa regola. Non è solo un problema legislativo, ma proprio di organizzazione», ha concluso Lucanìa.