PHOTO
Caiazza giustizia
Il primo decreto-legge del Governo Meloni in tema di giustizia penale segnala problemi che vanno ben al di là della sgrammaticatura a tratti delirante del nuovo reato cosiddetto “anti-rave” (anche se dei rave-party non registra il benché minimo accenno). Certo, ci vuole davvero coraggio a scrivere in una norma penale che «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica e la salute pubblica consiste nella invasione arbitraria di terreni ... allo scopo di organizzare un raduno quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica». Grazie tante. Monsieur De La Palisse impallidisce e si ritira definitivamente da ogni metafora sulle ovvietà tronfiamente inutili. Senonché le norme penali che descrivono la condotta da incriminare con queste grottesche tautologie sono pericolosi fogli bianchi, dove qualsiasi agente di polizia giudiziaria, Pubblico Ministero o giudice potrà scrivere ciò che vuole. E bisogna aver esagerato nei brindisi di festeggiamento post-elettorale per inserire questo sgorbio di reato addirittura nel catalogo di quelli, micidiali, contemplati nel codice antimafia ai fini della applicabilità delle misure di prevenzione personale. Quindi un rave, secondo gli incontinenti estensori di questa roba qui, crea lo stesso allarme sociale di una cosca mafiosa, o di una associazione finalizzata alla tratta di esseri umani o alla riduzione in schiavitù, o di un sequestro di persona a scopo di estorsione. Chiamate la neurodeliri. Ma la questione che deve davvero preoccupare è un’altra, e trova coerente conferma in tutto il decreto-legge, dunque anche nella parte relativa all’ergastolo ostativo (ma in realtà a tutti i reati ostativi, compresi ad esempio quelli contro la Pubblica Amministrazione). Intendo dire che chi ha concepito e scritto questo decreto mostra senza riserve una naturale, istintiva insofferenza verso alcuni principi costituzionali, percepiti come un ostacolo fastidioso alla narrazione “law and order” che si vuole chiaramente proporre come tratto identitario del nuovo corso politico. Il primo di quei principi mal digeriti è l’articolo 17, che sancisce la libertà di riunione dei cittadini, e che limita il potere di veto da parte dello Stato esclusivamente a “comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica”. Il nuovo reato estende questi limiti a motivi di “ordine pubblico”, che è una categoria giuridica incommensurabilmente più ampia della “sicurezza pubblica”. Non sono cavillosità avvocatesche, stiamo parlando di potestà limitative di quel fondamentale diritto costituzionale che manifestamente si espandono ben oltre i limiti costituzionali. Non faccio processi alle intenzioni, segnalo - come dire - la naturalezza istintiva di un pensiero incostituzionale (al quale in verità già ci aveva abituato il governo gialloverde Conte uno). Lo stesso vale per il tema delle ostatività. La Corte Costituzionale, piaccia o no, ha stabilito che il divieto assoluto di concessione di benefici per i reati ostativi, anche i più gravi, in assenza di condotte collaborative del detenuto, viola l’articolo 27 della Costituzione, ed invita il legislatore ad uniformarsi, curando di armonizzare questo principio con la complessità del quadro normativo di riferimento. Questo decreto-legge rimuove formalmente l’automatismo, ma al contempo si industria nell’ introdurre una tale serie di condizioni impossibili ed inesigibili per la concessione dei benefici, da ottenere lo stesso risultato (anzi, più grave) che la Corte aveva inteso rimuovere. Vedremo cosa ne penserà la Corte il prossimo 8 novembre, ma questo è il segnale politico, questo è l’intento del legislatore, d’altronde reso esplicito dal solenne deposito, in esordio di legislatura, di una proposta di legge costituzionale di riforma dell’articolo 27 sulla finalità rieducativa della pena. Dunque: legge, ordine, e buttare la chiave sono i chiarissimi messaggi identitari di questo decreto, legittimi perché voluti dalla maggioranza degli elettori. Ma i limiti costituzionali non sono un optional, e le statuizioni del Giudice delle Leggi non sono opinioni che aprono un contenzioso con il legislatore. Sono atti aventi forza di legge, anche se quella legge non piace. Sarà buona cosa farsene una ragione.