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Forse si capisce tutto se ci si affaccia un attimo nella commissione d’inchiesta sulle banche. Scena di ieri: c’è l’audizione di Ignazio Visco, successore di Mario Draghi al vertice di Bankitalia. «Se i tempi della nostra giustizia civile fossero allineati a quelli europei, non staremmo qui a discutere». Tradotto: signori miei, qua sono le procedure per il recupero dei crediti che vanno aggiustate, altro che riforma penale e prescrizione. Chi come Draghi e Visco viene da via Nazionale ragiona così: certezze a investitori e imprese, tutto il resto è relativo. Va detto che sulla riforma del processo civile le convergenze non saranno impossibili. Certo nulla di trascendentale in confronto alla guerra fra giustizialisti e garantisti più o meno autentici. Tanto che Draghi è prontissimo a lasciare aperto in Parlamento un vero e proprio fight club sulla giustizia penale. Si assicurerà di avere a via Arenula una figura dal profilo più alto possibile, quasi certamente Marta Cartabia. Dopodiché lascerà il ring, cioè il Parlamento, a disposizione dei partiti. Sarà una scena strana: da una parte il passo marziale del premier su Recovery e gestione della pandemia, dall’altra le battaglie rusticane su prescrizione e carcere.
Certo, vuol dire che il Parlamento potrà ritrovare centralità. Meno decreti blindati, meno fiducie, meno leggi- maxiemendamento illeggibili. È il passo avanti auspicato per anni al Quirinale, prima da Giorgio Napolitano e poi da Sergio Mattarella. Ma c’è il rischio che, sulla giustizia penale, le contraddizioni dell’inedita alleanza si rivelino insostenibili.
Una geografia del conflitto? Eccola.
Sulla prescrizione è già stato detto tutto, su queste pagine. Tra una settimana andranno al voto il lodo Annibali (di Italia viva) e i suoi fratelli dalle svariate paternità — i deputati Costa (Azione), Sisto e Zanettin (FI), Gagliardi (Cambiamo), Magi (+ Europa), oltre alla Lega in blocco. Gli emendanti sono incistati nel Milleproroghe, un decreto che non può scadere. Se si vuol cogliere il potenziale distruttivo della questione si deve sentire il sopracitato Enrico Costa: «In commissione Affari costituzionali la maginot Pd- M5s dovrebbe reggere: siamo 24 a 24. Ma nessuno può impedirmi di ottenere che il mio emendamento, sospensivo della norma Bonafede, venga rivotato in Aula. Dove lo scrutinio può essere segreto. Vediamo se non si trovano 6 o 7 deputati del Pd che votano contro la prescrizione grillina». Immaginarsi la scena successiva: i 5 stelle che vedono in frantumi la loro norma simbolo. Sarebbe il Vietnam.
Ovviamente non è finita qui: contrasti fortissimi ci saranno pure sulla riforma del Csm. Su un aspetto, in particolare, che vede di nuovo Pd e pentastellati contro il resto del mondo: il sorteggio per eleggere i togati. Lo propone l’azzurro Pierantonio Zanettin, ex laico a Palazzo dei Marescialli: centrodestra tutto d’accordo, Italia viva tentata eccome. Sarebbe un meccanismo “temperato”: l’estrazione a sorte delimita una rosa di un centinaio di magistrati tra i quali individuare i candidati al Csm. Ovvio che così le correnti potrebbero trovarsi sguarnite di rappresentanti. Ma i dem vogliono preservare l’associazionismo giudiziario e i 5 stelle non hanno voglia di reggere un vessillo su cui c’è scritto “legge voluta dal centrodestra”.
Ancora: il voto segreto dell’aula concede più di una chance alla separazione delle carriere, invisa ai pentastellati ma gradita da diversi deputati pd. In una lettera al Foglio pubblicata ieri, il capogruppo democratico in commissione Giustizia Alfredo Bazoli chiede di cogliere l’occasione offerta da «un governo di emergenza a base politica larga e di profilo istituzionale» per «abbassare le tensioni» sulla giustizia, e concentrarsi sul processo civile. Nei giorni scorsi i pontieri del Nazareno si sono rivolti a Costa e ad altri firmatari dei lodi anti- Bonafede: «Perché non li ritirate?». Tentativi di sminare il campo. Il Pd sa che rischierebbe di trovarsi nella situazione politicamente più imbarazzante.
A dire la verità ieri ha indossato il casco blu del peacekeeping anche il deputato di Italia viva Cosimo Ferri, ex sottosegretario a via Arenula: «La giustizia non sarà terreno di scontro per il nuovo governo, Draghi ha correttamente indicato nelle consultazioni il tema della giustizia civile, che può e deve costituire un volano per la nostra economia». Ferri è un magistrato prestato alla politica e ragiona da mediatore, con un occhio ai rischi per la categoria di provenienza. La realtà però è ben diversa. Si pensi al carcere: lì il Pd è pronto a smarcarsi dai grillini, vuol rilanciare la riforma Orlando, l’ha detto a Draghi, gliel’ha messo per iscritto e al 90 per cento potrà contare su una guardasigilli come Marta Cartabia, teorica della speranza da concedere a qualsiasi detenuto. Ma se pure i 5s facessero buon viso a cattivo (per loro) gioco, ci penserà Giorgia Meloni, dall’opposizione di destra: ieri la leader di FdI ha accusato Bonafede per la proroga delle norme sui domiciliari anti covid: «Un ignobile svuota- carceri mascherato». Le ha dovuto rispondere un pentastellato come Mario Perantoni, incredibilmente costretto a respingere l’accusa di eccessivo garantismo: «Meloni dice sciocchezze, quelle misure sono escluse per gli autori dei reati più gravi». Serve altro? Forse un po’ di realismo. Merce rara. Prova a offrirne Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali: «Si intervenga su quelle misure patrimoniali che anziché colpire solo la mafia travolgono l’economia di intere aree del Paese». Servirebbe a rilanciare il tessuto produttivo. In astratto è d’accordo pure Draghi. Ma c’è da giurare che se solo leggesse, in una proposta sulle misure di prevenzione, le parole “codice penale”, se ne terrebbe rigorosamente alla larga.