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Forse esagera, Jacopo Morrone, a parlare di «pateracchio indegno»: ex sottosegretarto alla Giustizia, dunque interlocutore privilegiato di Alfonso Bonafede finché è durato il governo gialloverde, il deputato leghista ha parole sempre definitive, per il guardasigilli. Un pateracchio no, ma un vestito d’arlecchino un po’ inquietante certamente lo è, il decreto intercettazioni. Anche perché, in mezzo alla snervante aporia delle norme a tutela della privacy mescolate con la solita spruzzata di trojan, manca un effettivo divieto di spiare gli avvocati. E su questo è intervenuto anche il presidente del Cnf, Andrea Mascherin: “Il tema delle intercettazioni si sposa con l’altro molto delicato del diritto costituzionale alla tutela del domicilio e, aggiungo, della libertà di pensiero e parola a casa propria. La tecnologia del Trojan è così avanzata da rischiare di sfuggire di mano. Non dimentichiamo che invadere il domicilio è come limitare la libertà personale, beni supremi. Allora bisognerebbe iniziare a riflettere sulla possibilità di non ritorno nell’utilizzo di certe tecnologie. E’ questione culturale e di democrazia prima che di rimedi di natura penale”. Ieri le nuove norme hanno ottenuto la fiducia a Montecitorio: 301 sì e 155 no. Saranno convertite in legge solo con il voto finale, calendarizzato dalla capigruppo per domani sera in modo da dare precedenza al decreto coronavirus.Riforma lunga 5 anniNato nell’ormai lontano 2015 da una costola della riforma penale di Andrea Orlando, incistato in quello sterminato ddl sotto forma di dettagliatissima delega, emanato a fine 2017 ma sottoposto a una serie di rinvii che ne hanno congelato l’entrata in vigore, il decreto intercettazioni ha preteso infine una sorta di appendice integrativa, cioè il testo di cui si discute in queste ore alla Camera, varato stavolta dalla maggioranza giallorossa e a un passo dal decollo definitivo. Storia travagliata, ma anche contraddittoria, come un po’ emerge dalle dichiarazioni di voto sulla fiducia pronunciate ieri pomeriggio. Soprattutto perché l’attuale vicesegretario dem, quando era ministro della Giustizia, lo aveva concepito soprattutto per limitare la diffusione indiscriminata dei brani captati dalle Procure. Ecco, sul punto sopravvivono alcune buone intenzioni, ma intrecciate con la discutibilissima estensione dei “trojan horse” oltre il confine già spostato in avanti dalla legge “spazza corrotti”: adesso i captatori informatici potranno essere attivati per i reati contro la pubblica amministrazione commessi non solo dal «pubblico ufficiale», come sancito dalla legge Bonafede, ma anche dall’«incaricato di pubblico servizio». Non solo. Perché dal Senato i deputati hanno ereditato un’altra piccola codificazione estensiva, quella che ha rischiato di causare feriti nella commissione Giustizia di Palazzo Madama, dove si è sfiorata la rissa, e che modifica l’articolo 270 del codice di procedura penale in modo da sdoganare l’uso delle intercettazioni «in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti», ma a una, anzi due condizioni: che si tratti acquisizioni «indispensabili» e che i reati in questione siano o fra quelli per cui è previsto l’arresto in flagranza o riconducibili al catalogo delle condotte più gravi, annoverate all’articolo 266 del codice di rito (oltre a mafia e terrorismo, anche i reati di corruzione con pena non inferiore a 5 anni e tutti i reatii di droga). Vista l’occasione, non ci si è lasciati sfuggire naturalmente analoga previsione anche quando e captazioni avvengono coi terribili virus spia.Ma in fondo proprio la norma sull’uso “ipertestuale” delle intercettazioni è il meno. Anche perché si tratta di un principio sdoganato ampiamente dalla Cassazione, con diverse pronunce ma in particolare con la 41317 del 2015. In fondo la puntualizzazione normativa rende certo il quadro e non lo peggiora, anzi. Il punto è che l’avanzamento complessivo della frontiera dei trojan contraddice bellamente lo spirito originario della riforma, ispirato innanzitutto alla tutela della reputazione degli intercettati (indagati o “incidentali”), e in particolare dei «dati personali definiti sensibili dalla legge». Buona intenzione a fatica mantenuta, in particolare in un paio di tornanti del denso e difficilmente leggibile articolato. Innanzitutto nel passaggio che è forse il cuore di tutto, quello che attribuisce al pm la prerogativa di vigilare sulla polizia giudiziaria «affinché nei verbali non siano riportate» quelle espressioni inutilmente diffamanti. E poi nella modifica apportata all’articolo 291 del codice di procedura penale, cara a Orlando, in base alla quale nelle richieste dei pm possono essere citati «soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate». Si rinuncia, viceversa, al divieto di trascrizione dei brani irrilevanti. Ipotesi inclusa nel testo varato da Orlando a fine 2017 e paradossalmente affidata al vaglio della polizia. Come si è visto adesso non c’è un divieto di trascrivere qualcosa, ma solo una censura, garantita dal controllo del pm, su quei passaggi che, per dirla in francese, sputtanano senza aggiungere alcunché di utile. Benissimo. Perché così il difensore non dovrà impazzire o rinunciare al sonno per ascoltare tutte le conversazioni, alla ricerca di spunti utili alla difesa. Potrà invece effettuare ricerche sui file dei verbali ai quali, una volta depositati, potrà accedere «in via telematica».L’avvocato? È spiabileE chiarissimo d’altronde come l’argine alle ondate di brogliacci penalmente irrilevanti ma oggettivamente devastanti per l’immagine sia affidata alla civiltà dei magistrati. E fin qui il margine di rischio potrebbe apparire talmente basso da essere tollerabile. Ma è invece intollerabile che sia decisiva ancora una volta la buonafede del pubblico ministero anche per la paradossale questione dei difensori intercettati. Il provvedimento che domani sarà convertito in legge non aggiunge nulla a quanto previsto dal testo Orlando (in vigore, come le nuove norme, solo dal 1° marzo): vale a dire il divieto di trascrivere le comunicazioni fra difensore e assistito. Divieto giusto ma insufficiente. Perché i brani resteranno comunque nell’archivio segreto del pm. E anche se non potranno mai entrare nel fascicolo (a meno che non si tratti di intercettazioni che costituiscano esse stesse corpo del reato) saranno di fatto nella disponibilità del pm. Che, se particolarmente scorretto, resta libero di approfittarne per spoilerare la strategia difensiva. Non il massimo della coerenza con la parità fra accusa e difesa di cui all’articolo 111. Ed è davvero incredibile che, dopo una gestazione durata 5 anni, neppure questa riforma abbia risolto il problema.