Si è infranto alle soglie del paradiso il sogno calcistico di Pietro Santapaola Jr, promessa del calcio giovanile, sacrificato sull’altare di una perversa concezione della giustizia che lo vedrebbe “colpevole” di portare un cognome legato al crimine organizzato. Lontano parente del boss catanese Nitto Santapaola, il giovane calciatore originario di Messina era sbarcato a Cosenza carico di aspettative e di sogni di professionismo: tutto naufragato per una sorta di reato “parentale” che non avrebbe passato il severissimo vaglio dei dirigenti del Cosenza, squadra che milita nel campionato di serie B e a cui Santapaola era approdato nel gennaio scorso. Suo padre, storia di qualche mese fa, è stato condannato, in primo grado, a 12 anni di reclusione per associazione mafiosa per una serie di reati commessi prima ancora che il ragazzo venisse al mondo: tanto però sarebbe bastato al massimo dirigente della squadra silana per decretarne l’esclusione dalle giovanili del Cosenza. Una vicenda dai contorni kafkiani esplosa all’inizio di marzo con l’esclusione dalla rosa della primavera del giovane calciatore e sfociata poi nel volgere di pochi giorni, con l’allontanamento di Santapaola dalla foresteria usata dai ragazzi delle giovanili che non sono originari della città. Una deriva drammatica e velocissima, finita inevitabilmente sulla scrivania del procuratore della città bruzia, a cui si è rivolto l’avvocato Salvatore Silvestro che ha denunciato il massimo dirigente rossoblu, Eugenio Guarascio, per violenza privata e mobbing.

NEL NOME DEL PADRE

Il diciassettenne Pietro Santapaola Jr nella città di Telesio ci è finito grazie alle sue qualità pallonare: dotato di ottima tecnica nonostante la giovane età (il ragazzo era stato più volte convocato nelle nazionali giovanili di categoria), Santapaola è stato scoperto dagli osservatori del team silano a Licata, in Sicilia, e immediatamente messo sotto contratto nelle file della massima compagine giovanile. Metabolizzato il passaggio dalla romantica realtà dei dilettanti a quella ben più sfavillante delle soglie del professionismo, il giovane calciatore si integra con il nuovo gruppo di coetanei e riesce a trovare immediatamente un posto fisso negli 11 iniziali. Sembra il coronamento di un sogno, dopo gli anni passati a girovagare per i campi polverosi di mezza Sicilia, ma improvvisamente le cose cambiano e, siamo agli inizi di marzo, il ragazzo – racconta l’avvocato Silvestro nella sua denuncia – viene raggiunto dal responsabile del settore giovanile che gli comunica la decisione societaria di escluderlo dagli allenamenti. «“Questo era il volere” del Presidente, Eugenio Guarascio – scrive l’avvocato Silvestro nella denuncia contro il presidente silano, pezzo da ’90 nel settore dei rifiuti in Calabria che prese la squadra all’indomani del fallimento del titolo sportivo – perché lo stesso era venuto a conoscenza delle vicende giudiziarie che hanno interessato il padre». Una sorta di reato “etnico”, con buona pace di tutta la retorica patinata legata ai valori dello sport che riabilita e non emargina e che, nella querela presentata dal legale, si “arricchisce” di particolari ancora più paradossali. Una della paure del presidente sarebbe infatti che «”il figlio di…” potesse rendersi autore di efferati delitti quali rapine o lesioni gravi nei confronti dei propri compagni di squadra».

IL VUOTO ATTORNO

Nella ricostruzione fatta dal legale, un ruolo importante in questa vicenda avrebbe provato a svolgerlo l’allenatore della squadra primavera, Emanuele Ferraro. Il coach infatti, saputa della cervellotica decisione di allontanare il ragazzo da quel convitto che era diventata la sua nuova casa, ha provato ad opporsi, ricevendo in compenso il benservito. A due giorni dagli avvenimenti raccolti nella denuncia infatti il tecnico si è visto recapitare a casa la lettera in cui la società calcistica, forse non contenta del comportamento tenuto dal proprio tesserato, poneva fine al loro rapporto di lavoro augurandogli, ironia della sorte «le migliori fortune professionali».

LA MOSSA DELLO STRUZZO

E mentre, racconta ancora il legale, il ragazzo «non fa altro che piangere da quando è tornato a Messina dopo il suo allontanamento», la società protagonista di questa presunta epurazione su base parentale non ha preso nessuna determinazione ufficiale, rimandando le spiegazioni su quanto accaduto ai prossimi giorni e trincerandosi in un silenzio imbarazzante interrotto solo dai mugugni che emergono dal sottobosco della tifoseria organizzata. Storicamente schierati a sinistra e più volte protagonisti di episodi di inclusione tra lo stadio e il carcere, gli ultras cosentini non sembrano avere preso bene la cervellotica decisione del club. Gli fanno eco anche gli ultras di Messina, città d’origine del ragazzo, che nei giorni scorsi hanno manifestato la propria solidarietà affiggendo un manifesto eloquente all’ingresso dello stadio peloritano: «Diffamato per il tuo cognome, Pietro Santapaola vero campione». E se al Cosenza fanno orecchie da mercante, aspettando che il caso si sgonfi, sul pero sembrano essersi rifugiati anche la lega di serie B (la Confindustria del secondo campionato di calcio italiano) e l’Associazione italiana calciatori che, ufficialmente non investiti della questione, hanno preferito tirarsi fuori dalla contesa, non intervenendo. Non potranno far finta di niente invece alla Figc, visto che copia della denuncia presentata dall’avvocato Silvestro in Procura, è stata recapitata anche agli uffici di via Allegri. Da qui, il fascicolo potrebbe finire nelle mani della giustizia sportiva.