«Un intero Paese è stato preso in giro per sei anni». Sono le parole con le quali il pm Giovanni Musarò ha concluso la requisitoria del processo sui depistaggi del caso Stefano Cucchi, per i quali ha chiesto la condanna degli otto carabinieri imputati. Il pm ha evidenziato le «inaccettabili ingerenze» sulle perizie medico legali, le «intimidazioni» su chi nel corso delle indagini ha detto la verità, ricordando anche il giudice Giulia Cavallone, che per prima si è occupata del processo fino alla scomparsa prematura, nell’aprile del 2020. La richiesta più severa - 7 anni - arriva per il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma. Chiesti 5 anni e mezzo di carcere per colonnello Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti ufficiale addetto al comando del Gruppo carabinieri Roma, e 5 anni per il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro e il carabiniere Luca De Cianni. Chiesti 4 anni di carcere per Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, 3 anni e 3 mesi per Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio la notte del pestaggio, 3 anni per l’ ex capo del Reparto operativo della capitale, Lorenzo Sabatino e 13 mesi di carcere per Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, per il quale si chiede il riconoscimento delle attenuanti generiche. Chiesta inoltre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Casarsa, Cavallo, Soligo e De Cianni e interdizione a 5 anni per Sabatino, Testarmata e Di Sano. L’attività di depistaggio sul caso Cucchi «è stata ostinata, a tratti ossessiva», ha evidenziato il pm, raccontando in una requisitoria lunga due giorni una vicenda lunga 12 anni, partita in un momento difficilissimo per l’Arma: «Lo stesso giorno in cui muore Stefano Cucchi, quattro carabinieri vengono indagati per concussione nei confronti di Piero Marrazzo», ha ricordato il magistrato, e dopo la pubblicazione delle fotografie del corpo di Stefano, in obitorio, con il volto tumefatto, «tutti chiedono la verità sulla sua morte». Un’archiviazione non avrebbe fermato la richiesta di verità che arrivava anche dall’opinione pubblica, ha sottolineato Musarò, e per questo gli imputati «non hanno voluto solo depistare l’autorità giudiziaria, ma riscrivere una verità anche mediatica e politica - ha aggiunto - riscrivere una verità per cui il politraumatizzato Stefano Cucchi era morto di suo. E incredibilmente ci sono riusciti, per 6 anni». L’inchiesta ruotava attorno alle annotazioni redatte da due piantoni nel 2009, poco dopo la morte di Cucchi e modificate per far sparire ogni riferimento ai dolori che lamentava il giovane la notte dell’arresto, dopo il pestaggio subito in caserma. Gli imputati, secondo la ricostruzione della procura, «hanno indirizzato scientificamente le accuse contro i tre agenti della polizia penitenziaria» imputati nel primo processo e poi assolti. Con una serie di «cortine fumogene» hanno complicato il corso della giustizia, ha detto Musarò, che però ha assicurato: «Questo non è un processo all’Arma e noi vogliamo evitare qualsiasi forma di strumentalizzazione».