Super evocativi. In alcuni casi «sentenze anticipate», dice chi, come Marco Scarpati, è uscito pulito da un’inchiesta che ancora lo perseguita, con tanto di minacce di morte online e sguardi storti dei passanti. Sono i nomi delle indagini, spesso frutto di fantasia, giochi di parole che evocano i reati ipotizzati ma che, a volte, hanno più successo e più effetti più dell’intera inchiesta. E ora, con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, potrebbero sparire per sempre. Per Enrico Costa, deputato di Azione e viceministro della Giustizia durante il governo Renzi, l’ansia di trovare un nome in grado di rimanere impresso nella memoria, capace di riassumere in sé le accuse e anche i giudizi su chi capita nelle maglie della giustizia, si tratterebbe di una vera e propria forma di “marketing giudiziario”. «Il nome dell’inchiesta, sapientemente impastato con la conferenza stampa, con i trailer, con le intercettazioni, con i titoli di giornali, con il frullatore della rete, non lascia scampo. E sopravvive agli eventi processuali - ha scritto recentemente in un intervento sul Foglio -. Le sentenze? Buone per il casellario, non certo per ribaltare fiumi di inchiostro. Un marketing non solo tollerato, non solo a opera di pochi, ma sistematico».

Mani Pulite

Di esempi ce ne sono a centinaia. Il più famoso di tutti è, senz’altro, “Mani Pulite”, inchiesta che cambiò le sorti politiche dell’Italia e che contribuì a creare quell’immagine della toga moralizzatrice e giustiziera alla quale molti giovani laureati in giurisprudenza si ispirarono pensando ad un futuro in magistratura. Quell’inchiesta deve il suo nome ad una risposta data dal deputato del Pci, Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata al Mondo nel 1975: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non le abbiamo mai messe in pasta». E come se non bastasse il nome scritto sul fascicolo in mano al famoso pool milanese, anche la stampa ci mise del suo, coniando un nuovo termine con il quale identificare l’inchiesta: Tangentopoli. Ma il ruolo dei media non si limitò a questioni di etichetta: quell’indagine si trasformò in un vero e proprio evento mediatico e la stampa contribuì ad affossare i partiti della Prima Repubblica. Le notizie sulle indagini riguardanti politici e manager arrivavano nelle redazioni a ritmo incessante. In quel periodo verificare le notizie, oltre a non essere mai stato definito esplicitamente come un obbligo dei giornalisti, era particolarmente difficile proprio per i ritmi serrati. Fu un'epoca di grandi eccessi, ammessi dalla stessa categoria giornalistica, e di grandi dibattiti nelle redazioni sull'opportunità di pubblicare o meno, in un regime di concorrenza spietata, notizie non accuratamente verificate. Il caso esplose quando il deputato socialista Sergio Moroni e il manager dell'Eni Gabriele Cagliari si suicidarono. In una lettera indirizzata al presidente della Repubblica e scritta poco prima del suicidio, Moroni etichettò come un’ingiustizia il fatto che «una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive, a cui è consentito di distruggere immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste un diritto d’informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie».

Mafia Capitale

A Roma l’inchiesta col nome più evocativo è forse quella relativa al “Mondo di Mezzo”, al quale veniva contestata una mafiosità alla fine smentita dai tribunali. La sentenza di Cassazione, nel 2019, ha infatti certificato l'esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura, cioè quell'associazione di stampo mafioso che, con violenza, si è occupata di usura, riciclaggio, corruzione mettendo le mani su attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti e servizi pubblici. Una «mafia costruita» secondo Alessandro Diddi, legale di Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati assieme all’ex Nar Massimo Carminati, cui si deve il nome dell’inchiesta: «È la teoria del mondo di mezzo, compà - si sente dire durante un’intercettazione -. Ci stanno, come si dice, i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo». Ma per i giudici, la teoria investigativa che ha di fatto cambiato le sorti della politica capitolina, spianando la strada all’ascesa del M5S al grido “onestà”, non ha trovato riscontri.«I risultati probatori hanno portato a negare l’esistenza di una associazione per delinquere di stampo mafioso: non sono stati infatti evidenziati né l’utilizzo del metodo mafioso, né l’esistenza del conseguente assoggettamento omertoso ed è stato escluso che l’associazione possedesse una propria e autonoma “fama” criminale mafiosa», si legge nelle motivazioni della sentenza.

Geenna

A svelare l’esistenza della ‘ndrangheta in Val d’Aosta è l’inchiesta “Geenna”. Un nome di una potenza incredibile, se si pensa che tale termine significa letteralmente inferno. Si tratta della valletta scavata dal torrente Hinnom sul lato meridionale del monte Sion, maledetta dal re Giosia per essere divenuta sede del culto di Moloch, che imponeva la pratica di sacrificare i bambini dopo averli sgozzati. La valle divenne quindi una discarica e “cimitero” per le carogne delle bestie e i cadaveri insepolti dei delinquenti, che venivano bruciati. Insomma: in quella valle, laddove la ‘ndrangheta aveva preso piede, tutto era da considerare maledetto, stando al nome dell’inchiesta. Ma lì in mezzo, tra gli arrestati e i processati, c’è anche gente come Marco Sorbara, ex consigliere regionale, assolto a luglio scorso dall’accusa di essere un concorrente esterno alle cosche. Per lui «il fatto non sussiste», ma prima che ciò venisse provato ha dovuto trascorrere 909 giorni in custodia cautelare. Insomma, un inferno il suo, quello per davvero. Una sofferenza tale da pensare anche al suicidio: «Dopo due settimane ho preparato una treccia col lenzuolo, ho visto che reggeva e mi sono detto: durante la notte mi appendo - ha raccontato al Dubbio -. Perché non aveva più senso la mia vita». Per un innocente, ha sottolineato, «anche un’ora in più in carcere è devastante. Ho sentito fisicamente quella violenza e ancora oggi sento il bisogno di farmi la doccia per togliermi quella sensazione di dosso».

Angeli e demoni

L’indagine sugli affidi in Emilia Romagna ha rappresentato un altro buco nero per la politica e l’informazione italiane. Una vicenda iniziata nel 2018 - a giorni il gup si pronuncerà sulla richiesta di rinvio a giudizio - che ha fatto irruzione sulla campagna elettorale per le regionali in Emilia provocando un vero e proprio dispiegamento di forze contro il Pd, reo, in quell’occasione, di avere tra i propri tesserati un sindaco indagato, anche se per fatti non legati agli affidi dei minori. Era il sindaco di Bibbiano, paese che all’improvviso si ritrovò sconvolto e sulla bocca di tutti, complice anche la stampa, che ribattezzò l’indagine dandole il nome del piccolo centro emiliano. M5S e Lega, ai tempi insieme al governo, piombarono lì, scatenando una vera e propria tempesta mediatica contro il Partito democratico e dando il là ad una campagna discriminatoria contro gli assistenti sociali, da quel momento in poi minacciati, inseguiti e screditati. Tra gli indagati anche Scarpati, tra i più famosi al mondo nel campo del diritto minorile, docente universitario, consulente per diversi governi e autore di libri sul tema, finito nell’inchiesta con l’accusa di abuso d’ufficio, per l’assegnazione dell’incarico di consulente legale dell’Unione della Val d’Enza e per singoli incarichi per la difesa di minori. Fu la stessa procura a chiedere e ottenere la sua uscita di scena dall’inchiesta più mediatizzata degli ultimi anni, ma nonostante ciò gli effetti della macchina dell’odio continuano. «Qualche giorno fa, davanti al tribunale, un uomo, passandomi vicino, ha sputato per terra insultandomi - raccontò al Dubbio a gennaio dello scorso anno -. E tutto questo è spaventoso». Fu lui a chiarire quanto il nome di quell’inchiesta incidesse sulla percezione della vicenda nell’opinione pubblica: «Quel nome è una follia - spiegò ancora -. Chi chiama un’inchiesta con quel nome sta già emettendo una sentenza. Io sono figlio di un poliziotto, orgoglioso di esserlo. E mio padre mia ha sempre detto una cosa: ricordati che quando arresti una persona gli hai tolto la libertà, il bene supremo. E non devi togliergli altro, come la dignità, perché quell’uomo è un tuo prigioniero. Mio padre è stato prigioniero per anni durante la guerra e ricordava perfettamente cosa volesse dire. Ora non ti tengono più prigioniero, cercano di toglierti la libertà. Io faccio l’avvocato e l’idea che qualcuno pensi a togliere la dignità ad una persona sottoposta ad indagini è inaccettabile».

Spes contra spem

Il nome “Spes contra spem”, dato ad un’indagine condotta dalla Dda di Reggio Calabria, non è soltanto evocativo. La locuzione latina di San Paolo, che significa “la speranza contro la speranza”, è «la storia di Caino sul quale il Signore pose un segno perché nessuno lo toccasse che, nella stessa vita, divenne finanche costruttore di città», spiegò in una nota l’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Che accusò l’antimafia dello Stretto di aver usurpato le parole di San Paolo, violentandole. L’inchiesta racconta di come il boss Pasquale Zagari di Taurianova, tornato in libertà dopo trent'anni di reclusione, avrebbe tentato di riprendere il controllo del territorio. Ma per l’associazione, l’utilizzo di quel termine rappresenta quasi uno smacco all’attività di chi si impegna a garantire il rispetto dell’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Nell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, veniva evidenziato come Zagari, dopo esser ritornato in libertà, «aveva avviato un apparente percorso di riabilitazione sociale, partecipando a dibattiti, convegni e incontri, come testimone di redenzione, pentendosi del suo passato criminale, e contro l’ergastolo ostativo, in ultimo a Taurianova, nel settembre 2020». Ovvero quando Nessuno tocchi Caino si trovava in Calabria per la presentazione del libro “Il viaggio della speranza”: il racconto del Congresso di Opera che ha celebrato la sentenza Viola contro Italia della Corte Edu. «“Spes contra spem” è l’archetipo antropologico della nostra civiltà - scriveva l’associazione in una nota -. Ridurlo a un’operazione repressiva è un sacrilegio nel senso etimologico: si porta via qualcosa di sacro, per credenti e non, di inviolabile. Si chiudono porte e finestre, nel nome della diffidenza e della paura. Non è ironia, che per Calvino è sempre “annuncio di un’armonia possibile”. È maltolto che, presto o tardi, va sempre restituito».