La sua condanna, a quattro anni di reclusione scontati nel regime di Alta Sicurezza, era stata confermata dalla Cassazione nel 2004. Il reato per il quale è stato condannato è associazione a delinquere di stampo mafioso, sull’assunto che – per il tramite dell’impresa edilizia di cui era titolare – egli si fosse avvalso del vincolo associativo per acquisire il controllo di attività economiche e, in particolare, di appalti pubblici. Dopo vent’anni, ma non senza difficoltà tra Appello e Cassazione, alla fine la corte d’Appello di Caltanissetta ha accolto l’istanza di revisione presentato dalla difesa composta dagli avvocati Stefano Giordano e Valerio Vianello. Sono venute meno le principali fonti di prova.

Parliamo di Antonino Giordano (omonimo, ma non parente del difensore), classe 1959, reo – secondo i giudicanti – di essersi associato con le proprie imprese edili a Luigi Bonanno, soggetto ritenuto dagli inquirenti pienamente organico della banda criminale operante nel comune di Misilmeri in provincia di Palermo, per consentirgli l'esecuzione di appalti per lavori pubblici che lo stesso Bonanno acquisiva con metodi mafiosi. Giordano, inoltre, sempre secondo la tesi che l’ha portato alla condanna definitiva, offriva ulteriori utilità alla associazione mafiosa quali la disponibilità di luoghi sicuri per lo svolgimento di riunioni degli associati. Lo svolgimento di tali attività integrava il suo concorso nel reato associativo in quanto aveva dato piena e incondizionata adesione agli scopi della organizzazione.

Ma grazie al lavoro degli avvocati, soprattutto tramite una scrupolosa indagine difensiva, sono stati individuati sia gli elementi di prova già esistenti ma non considerati dal tribunale, sia quelli nuovi che provano, di fatto, l’estraneità del loro assistito al contesto mafioso. Per comprende meglio il quadro, partiamo dal fatto che Angelo Bonanno (nel frattempo deceduto prima dell’esito del processo a suo carico), proprietario della Sicer, un’azienda che produce materiali da costruzione, viene indicato dal pentito Cosimo Lo Forte come uno dei personaggi di spicco della famiglia mafiosa di Misilmeri. I giudici avevano ritenuto che Antonino Giordano abbia associato i propri mezzi di impresa con quelli di Bonanno per ottenere appalti di opere pubbliche attraverso la forza dell'intimidazione.

I giudici avevano anche affermato che Giordano abbia presieduto o partecipato alle operazioni di collaudo dell'impianto elettrico per la costruzione di una scuola a Misilmeri, con la documentazione fornita da Bonanno. Tuttavia, la difesa ha sostenuto che la gestione degli appalti è sempre stata curata dai fratelli Giordano, che hanno vinto l'appalto, e che l'intervento di Bonanno è stato solo come fornitore di materiali. Inoltre, la difesa ha affermato che l'elettricista Gaspare Di Vita ha dichiarato di avere rapporti solo con i fratelli Giordano, fatta eccezione per i materiali, e che Bonanno non aveva alcun coinvolgimento nella gestione degli appalti. «Quando si trattava di materiali avevo rapporti con il sig. Angelo Bonanno. Per tutto il resto ho avuto sempre rapporti con il Giusto e Antonino Giordano che ricordo venivano in cantiere per sorvegliare i lavori», ha riferito Di Vita.

Ma questo non era bastato per i giudici che hanno emesso comunque la condanna. Non solo. Altro punto fondamentale è l’intercettazione ambientale che per i giudici, senza ombra di dubbio, riguardava un colloquio tra Bonanno e Antonino Giordano. La Corte l’ha ritenuto un elemento fondamentale che ha consentito di ritenere Giordano un associato all’organizzazione mafiosa. Nei fatti sono emersi due prove che smentiscono categoricamente ciò. Una era già stata presentata all’epoca del processo, ma non presa in considerazione. Secondo gli inquirenti dell’epoca, Bonanno - nell'ascoltare le preoccupazioni espresse da Giordano (ma poi vedremo che non era nemmeno lui) – avrebbe concluso «Eh... l’importante e che abbiamo il lavoro».

Tale colloquio, secondo i giudici che hanno emesso la condanna definitiva, sarebbe valso a dimostrare la «dipendenza del Giordano dal Bonanno», la «sovraordinazione del secondo sul primo». In realtà, in un distinto processo (Giordano scelse l’abbreviato all’epoca) che riguarda comunque la stessa causa, emerse che ci fu un errore di perizia fonica: in realtà la frase esatta era: «Eh, l’importante che hai un lavoro!». Come emerge chiaramente, Bonanno non ha manifestato alcuna cointeressenza, alcuna compartecipazione nell'attività imprenditoriale del Giordano; ma – come ha scritto l’avvocato Stefano Giordano nella richiesta di revisione del processo - «unicamente una forma di auspicio e solidarietà, del tutto normale e comprensibile tra soggetti che intrattenevano buoni rapporti».

Ma grazie alle indagini difensive è emersa anche una prova che ha chiuso definitivamente la questione. La difesa ha dimostrato che l’interlocutore del presunto boss mafioso Bonanno, nel corso di quella conversazione, era un soggetto diverso da Antonino Giordano. Chi? L’avvocato Stefano Giordano ha raccolto la testimonianza di Giuseppe Di Corrado che all’epoca lavorava presso il cantiere, il quale non solo ha escluso che Antonino abbia mai partecipato ai lavori di realizzazione del Palazzetto dello Sport di Cefalù (una delle due attività imprenditoriali che hanno consentito di ritenere Giordano associato alla mafia), ma non ha escluso che potesse essere stato proprio lui a conversare quel giorno con Bonanno. D’altronde, la difesa ha fatto emergere che le sue condizioni personali riferite nella telefonata, nome, età, presenza di più figli, corrispondevano esattamente a quelle di Di Corrado. Quindi era lui il soggetto che parlava e non Giordano. E infatti, che non sia la voce di quest’ultimo, sarà poi confermato da una perizia fonica disposta dalla Corte nissena nell’àmbito del giudizio di revisione; la quale ha escluso che la voce dell’interlocutore del boss mafioso potesse essere riconducibile a Giordano.

Da tutte le prove raccolte, vecchie (ma mai prese in considerazione) e nuove, non emerge alcun profilo di illiceità delle attività svolte da Giordano; mentre emerge – scrive l’avvocato Stefano Giordano nell’istanza di revisione – «l'esistenza di un mero, usuale rapporto di collaborazione commerciale tra questi e il Bonanno, che normalmente (uno quale appaltatore, l'altro come fornitore dei materiali) s'interfacciavano con i vari interlocutori (artigiani, operai etc.), che discutevano dei rispettivi rapporti di dare/avere, che trattavano dei tempi e dei modi di esecuzione dei lavori, che si scambiavano consigli e opinioni, senza che appaia mai prospettabile una società di fatto fra i due soggetti». E i nuovi elementi di prova corroborano e consolidano questa conclusione, «depurandolo anzi - sottolinea la difesa - di quei profili di ambiguità (le intercettazioni ambientali) che hanno sinora potuto in qualche modo "contaminare" la posizione del Giordano».

Non è stata una passeggiata, anche perché la corte d’Appello ha inizialmente rigettato l’istanza di revisione, ma solo grazie alla Cassazione, i giudici sono stati “costretti” a valutare gli elementi di prova nel suo insieme e non visti in chiave “frammentata”. Da ciò, la pronuncia di assoluzione di Antonino Giordano da parte della Corte di Caltanissetta, che pone termine a un’ingiustizia protrattasi per oltre vent’anni. Ora il prossimo passo sarà la battaglia per il risarcimento a causa dell’evidente errore giudiziario.