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Corte costituzionale
La norma del cosiddetto Decreto Semplificazioni - che restringe la sfera applicativa del reato di abuso d’ufficio alle “violazioni di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” - non nasce soltanto dalla necessità di contrastare la “burocrazia difensiva” e i suoi guasti derivanti dalla dilatazione dell’applicazione giurisprudenziale dell’incriminazione. È «l’esigenza di far “ripartire” celermente il Paese dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che – nella valutazione del Governo (e del Parlamento in sede di conversione) – ha impresso ad essa i connotati della straordinarietà e dell’urgenza. Valutazione, questa, che non può considerarsi, comunque sia, manifestamente irragionevole o arbitraria». È quanto si legge nelle motivazione della sentenza n. 8 depositata oggi (relatore Franco Modugno) con cui la Corte costituzionale ha dichiarato non fondatala questione di legittimità dell’articolo 23, comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020 n. 76 (convertito nella legge n. 120/2020) sollevata dal Gup del Tribunale di Catanzaro in riferimento all’articolo 77 della Costituzione. La Corte ha ricostruito la lunga vicenda politico-parlamentare-giudiziaria dell’abuso d’ufficio e di quella “burocrazia difensiva” derivante dalla dilatazione dell’ambito applicativo del reato, per cui «i pubblici funzionari si astengono […]dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative […], o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”)». Tuttavia, la Corte ha rilevato che la scelta di porre mano all’intervento legislativo censurato è maturata «solo a seguito dell’emergenza pandemica daCOVID-19, nell’ambito di un eterogeneo provvedimento d’urgenza volto a dare nuovo slancio all’economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata chiusura delle attività produttive disposta nella prima fase acuta dell’emergenza». La modifica di segno restrittivo dell’area di rilevanza penale era stata censurata dal Gup del Tribunale di Catanzaro con riferimento, sia alla scelta di attuarla con un provvedimento d’urgenza, sia alla correttezza, dal punto di vista sostanziale, delle soluzioni concretamente adottate. Il giudice chiedeva una pronuncia di incostituzionalità che avrebbe avuto come effetto la reviviscenza della precedente norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio, dal perimetro più vasto. La Corte ha escluso che la modifica censurata fosse «eccentrica e assolutamente avulsa», per materia e finalità, rispetto al decreto-legge in cui è stata inserita, composto di norme eterogenee accomunate dall’obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese dopo il blocco delle attività produttive che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza pandemica. Nel Governo, prosegue la sentenza, era diffusa l’idea che questa ripresa potesse essere facilitata anche «da una più puntuale delimitazione della responsabilità». Da questo punto di vista, «la modifica non è neppure una “monade” isolata» ma si abbina «a disposizioni volte a “tranquillizzare” i pubblici amministratori» rispetto all’altro “rischio” della responsabilità erariale, parimenti oggetto di modifiche a carattere limitativo. Pertanto, la Corte ha concluso che la norma censurata non è «palesemente estranea alla traiettoria finalistica portante del decreto». La sentenza esclude, inoltre, che mancassero i requisiti di straordinaria necessità e urgenza, derivanti, secondo la valutazione del Governo, proprio dall’emergenza epidemiologica e dalla necessità di far “ripartire” il Paese celermente. È stata dichiarata, invece, inammissibile la questione relativa ai contenuti sostanziali della modifica, che secondo il Gup di Catanzaro avrebbe depotenziato eccessivamente la tutela del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione (articoli 3 e 97 della Costituzione). La questione mirava a una pronuncia sfavorevole per l’imputato in materia penale, fuori dei casi in cui ciò è consentito alla Corte. La sentenza ha pure ricordato che la salvaguardia dei valori costituzionali non si esaurisce nella tutela penale e che «l’incriminazione costituisce anzi un’extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando, nel suo discrezionale apprezzamento, lo ritenga necessario per l’assenza o l’inadeguatezza di altri mezzi di tutela».