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Definire un martire dell’avvocatura Enzo Fragalà non è affatto azzardato. La Corte di Cassazione, con il rigetto dei ricorsi di tre dei quattro imputati (Antonino Abbate, Francesco Arcuri e Salvatore Ingrassia), ha confermato le condanne per gli assassini dell’avvocato palermitano. Il noto penalista, ex parlamentare di Alleanza nazionale e docente universitario, fu aggredito il 23 febbraio 2010 sotto il proprio studio legale, a Palermo, a pochi passi dal Tribunale. Morì tre giorni dopo. Fragalà, come è emerso nei tre gradi di giudizio, venne punito per l’impegno contro la mafia. Dentro e fuori dalle aule giudiziarie, non si sottrasse mai dal dare un’opportunità – la più importante – ai suoi assistititi: recidere i contatti con la mafia e passare dalla parte della giustizia. Ecco perché cosa nostra lo etichettò come una sorta di “sbirro” in toga.
I giudici della Prima sezione penale della Cassazione hanno messo, dopo tredici anni, la parola fine ad una vicenda che ha scosso non solo l’avvocatura palermitana per l’efferatezza dell’atto che ha provocato la morte di Enzo Fragalà, per il contesto in cui è maturato l’omicidio e per il movente. Il sostituto procuratore generale della Suprema Corte, Giuseppina Casella, ha usato parole molto chiare martedì, nel corso dell’udienza in cui ha chiesto la conferma delle condanne degli imputati. «Rendo omaggio in questo luogo all’avvocato Fragalà – ha detto -, vittima di un’aggressione brutale in quanto avvocato, ammazzato perché avvocato».
Il Pg Casella nella requisitoria aveva chiesto di rigettare i ricorsi presentati dalle difese degli imputati, Antonino Abbate, Francesco Arcuri e Salvatore Ingrassia, già condannati in primo grado e in appello. Il quarto imputato, Antonino Siragusa, pentito, è stato condannato in appello a quattordici anni e non ha presentato ricorso. È stata, dunque, confermata, la sentenza del 28 marzo di un anno fa della Corte d’Assise d’Appello di Palermo con la condanna a 30 anni per Antonino Abbate, ritenuto l’esecutore materiale del pestaggio a colpi di bastone, a 24 anni per Francesco Arcuri, boss del Borgo Vecchio, considerato il mandante, e a 22 anni per Salvatore Ingrassia, che fece parte del commando fornendo supporto logistico.
«La principale critica mossa in questa sede dai tre imputati – ha rilevato il Pg Casella in aula – riguarda le dichiarazioni rese da Antonino Siragusa, condannato ormai in via definitiva: un fil rouge che collega i tre ricorsi. I giudici di merito su questo punto hanno escluso qualsiasi inquinamento delle dichiarazioni e intenti calunniatori. Il contesto mafioso in cui è maturato questo delitto è lo stesso degli imputati e proprio lì è maturato il movente: occorreva impartire una lezione a Fragalà, che, secondo la loro visione, non faceva l’avvocato ma lo “sbirro”».
La sentenza della Cassazione che mette la parola fine alla vicenda giudiziaria mitiga fino ad un certo punto il dolore per la scomparsa di «un eccellente avvocato e un padre amorevole». La figlia di Enzo Fragalà, Marzia, evidenzia che «il vuoto lasciato dalla morte di mio padre è enorme». «Quando è stato ucciso - dice al Dubbio l’avvocata Marzia Fragalà - dovevo ancora abilitarmi, avevo da poco fatto l’esame. Purtroppo, mio padre non è riuscito ad assistere alla mia proclamazione. Sono stati anni molto lunghi e molto difficili. Per arrivare alla sentenza della Corte di Cassazione abbiamo dovuto combattere e sopportare tante cose». A questo punto cresce la commozione di Marzia Fragalà: «Volevano uccidere mio padre due volte. Materialmente, con i colpi che gli hanno inflitto in maniera mortale, ma anche moralmente, attribuendogli dei comportamenti che non la rappresentavano, così come usa fare la mafia quando compie dei delitti così efferati. La mia famiglia non si è mai piegata, non si è mai arresa. Anzi, abbiamo combattuto ancora di più e preteso la verità fino alla fine. La sentenza della Cassazione è un grande risultato. La Suprema Corte ha dichiarato la verità sia giudiziaria che dei fatti rispetto a quanto successo. Mio padre è stato ucciso dalla mafia perché avvocato e perché esercitava la professione in maniera libera. Era un uomo brillante e coraggioso, che non si lasciava influenzare da nessuno, men che meno dalla mafia. Era fiero di indossare la toga. Il Procuratore generale della Cassazione ha sottolineato, da magistrato, il ruolo importante di un avvocato che ha sempre svolto la professione con passione e dedizione. Un avvocato morto perché tale. Un avvocato con la “a” maiuscola».
La presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, sottolinea il risultato raggiunto con la sentenza dei giudici di piazza Cavour. «Apprendiamo con soddisfazione – commenta - la conferma delle condanne da parte della prima sezione della Corte di Cassazione in merito all’omicidio dell’avvocato palermitano Enzo Fragalà e con particolare piacere apprezziamo l’omaggio che il sostituto procuratore generale Giuseppina Casella ha voluto rendere a Fragalà “ammazzato in quanto avvocato”. Un omaggio che accentua e valorizza la funzione e il ruolo dell’avvocato».
Il pensiero del presidente del Coa di Palermo, Dario Greco, va a quel maledetto 23 febbraio 2010. «Tutta l’avvocatura palermitana – afferma - rimase sgomenta nell’apprendere della brutale aggressione nei confronti del collega Enzo Fragalà. Furono giorni terribili, dalla veglia in ospedale a quella al Palazzo di Giustizia, attorno al feretro. Con la sentenza della Corte di Cassazione, che ha confermato le condanne già comminate in appello, si è chiusa la vicenda giudiziaria. Ma soprattutto è stato definitivamente accertato che Enzo Fragalà è stato assassinato perché era un vero avvocato. Enzo Fragalà è un martire della toga, che ha pagato con la sua vita la difesa dei valori dell’indipendenza e dell’autonomia dell’avvocato e della sua missione difensiva. L’avvocatura palermitana non potrà mai dimenticare il suo sacrificio».