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«Sono pratiche illegali, il superamento di un limite che non andava superato. È una cosa che tocca tutti, non soltanto noi. Si tratta di libertà dell’esercizio della professione e della difesa, che vanno tutelati in maniera universale. Ma noi avvocati non lasceremo che questa violazione rimanga senza conseguenze». A parlare al Dubbio è Serena Romano, avvocata del foro di Palermo, tra i quattro professionisti intercettati dalla Procura di Trapani nell’inchiesta che ha portato al sequestro della nave Juventa, della Ong tedesca Jugend Rettet, accusata di concordare i soccorsi con i trafficanti. Romano, come i suoi colleghi, è stata registrata mentre parlava al telefono con la giornalista Nancy Porsia, spiata dal Servizio centrale operativo nel corso dell’inchiesta. E anche se quelle conversazioni riguardavano le strategie difensive dei professionisti, nessuno, dall’altra parte del telefono, ha fatto ciò che prevede la legge: spegnere il captatore. Avvocato, come ci è finito il suo nome in questa inchiesta? Vorrei capirlo anche io. Mi occupo di immigrazione da sempre e nel 2015 ho iniziato a seguire un processo molto delicato a Palermo sulla Libia. Si trattava di un caso di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e omicidio plurimo aggravato, perché purtroppo c’era stato un naufragio. In quella vicenda ho ritenuto necessario inserire tra i testi la giornalista Nancy Porsia. Perché? Facevamo processi in Italia senza sapere cosa accadesse in Libia ed era fondamentale capire come funzionasse il sistema dei viaggi e, soprattutto, cosa succedeva in Libia. Articolare una tesi anche d’accusa implica che io conosca il panorama di partenza. Queste conoscenze non le avevamo, quindi l’ho sentita durante il processo. E una di queste conversazioni, una telefonata delicatissima, io cui io parlavo apertamente della mia strategia difensiva e chiedendole una serie di informazioni riservatissime su aspetti di questa vicenda è stata ascoltata. E ciò non va bene, perché se dall’altro lato c’è un avvocato che sta parlando di un processo l’ascolto va interrotto. Ma non si sono limitati a questo. No, qui abbiamo tutti i passaggi pratici: hanno ascoltato, registrato, trascritto e depositato agli atti di un processo una conversazione riservata, di un difensore, su un processo che nulla aveva a che vedere con quell’indagine. È dunque una violazione palese dell’articolo 103 del codice di procedura penale. Esattamente. Una violazione gravissima e spero che si accerti cos’è successo, perché il fatto che quelle conversazioni non verranno utilizzate non mi rassicura affatto. Mi pare scontato: sono inutilizzabili per ragioni giuridiche e perché non servono a nulla in quel procedimento. Ma io ho bisogno di capire perché è successa una cosa del genere e soprattutto bisogna fare in modo che si stabilisca una volta per tutte che queste cose non possono succedere. Come? Ci deve essere un potere di controllo su violazioni così gravi della nostra sfera professionale. Sono due cose altrettanto gravi, due tipi di segreto diversi, ovviamente. Il caso di Nancy Porsia è gravissimo e ha tutta la mia solidarietà, perché i profili e le implicazioni di una cosa del genere sono macroscopici, anche in termini di esposizione di persone che ritenevano di essere al sicuro nelle conversazioni con un giornalista, perché il segreto professionale è anche strumento di affidabilità e credibilità dello stesso. Altrettanto grave è il profilo della lesione della nostra libertà di esercizio della professione, perché adesso so che non sono libera, che può accadere questo, che mentre parlo al telefono di un mio processo quello che dico può essere intercettato, trascritto e utilizzato, formalmente o informalmente. Perché l’elemento cognitivo arriva dall’altro lato e non posso conoscere la fine che fa. Ma il punto è che questo passaggio non deve proprio esserci. Non si può entrare nella nostra sfera professionale. Ci sono norme che vietano certe intrusioni, però accade più spesso di quanto si immagini. Ma nessuno punisce queste violazioni. Ho ricevuto tantissima solidarietà e si sta attivando una serie di canali per avviare delle iniziative. Questa cosa, da parte degli avvocati, non rimarrà senza conseguenze. Intanto, ovviamente, aspettiamo l’esito delle ispezioni e delle interrogazioni parlamentari. C’è un tentativo di narrare una storia diversa dei flussi migratori? Sicuramente. C’è un problema di uso delle parole sin dall’inizio, con un sovvertimento della prospettiva e una criminalizzazione che abbiamo subito denunciato, anche nelle sedi giudiziarie. Abbiamo osservato il tentativo di stravolgere le cornici del senso comune e di affermare il principio che si può morire nel Mediterraneo, che se parti e resti senza benzina è colpa tua, che nessuno deve venire a salvarti e nella migliore delle ipotesi devi tornare nei campi di concentramento libici. Il naufragio è una cosa diversa dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, le persone che vengono salvate in mare non sono clandestini, sono naufraghi e se scappano dalla Libia sono anche profughi di guerra e di molto altro. C’è stato un uso consapevole delle parole, una sovrapposizione dei temi. E secondo lei anche la violazione del diritto di difesa rientra in questo tentativo? Abbiamo troppe poche informazioni in questo momento per capire la natura e l’entità di questa violazione, che è gravissima. Ma è chiaro che qualsiasi investigatore dovrebbe sapere che quando sta ascoltando un avvocato che sta parlando di un processo dovrebbe interrompere la registrazioni. Quali siano le ragioni per cui queste conversazioni siano finite nella carte di questo processo speriamo di saperlo e allora potremo anche capire che funzioni avessero, nel momento in cui si è deciso di dare rilevanza a questi atti irrilevanti. Siamo felici che tutto questo sia venuto alla luce, perché finché c’è la denuncia e la reazione vuol dire che ci sono anche gli anticorpi contro pratiche illegali, perché di questo si tratta. Ci aspettiamo che le sedi che già sono state investite e quelle che verranno investite ci dicano quali funzioni avessero quelle intercettazioni. Ma il danno è fatto.