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Destinazioni: Newsletter della mattina

Uncategorized 24 May 2022 00:01 CEST

«Ma la condanna a quel sergente russo è dimostrativa…»

Intervista Gennaro Grimolizzi 23 May 2022 21:11 CEST

«Contro quel sergente russo una sentenza dimostrativa…»

Paolo Caroli, esperto di diritto internazionale, commenta la condanna all’ergastolo del baby soldato di Mosca Vadim Shishimarin

La condanna all’ergastolo del sergente Vadim Shishimarin, accusato di aver ucciso un cittadino ucraino il 28 febbraio scorso, è il primo provvedimento che punisce «un crimine contro la pace, la sicurezza, l’umanità e la giustizia internazionale». Il giudice Serhiy Agafonov, che ieri ha letto nel Tribunale di Kiev la sentenza, ha evidenziato che «la corte non ravvisa la possibilità d’infliggere una pena per un periodo più breve». La velocità con cui si è giunti alla condanna lascia però perplessi. È stato colpito un “un pesce piccolo”, come dice Paolo Caroli, docente di diritto penale nell’Università di Torino ed esperto di diritto penale internazionale.

Avvocato Caroli, la condanna di Shishimarin all’ergastolo è arrivata al termine di un processo svoltosi in poche settimane. La sentenza potrebbe avere anche un altro significato?

La velocità del processo si spiega, da un lato, con il fatto che l’imputazione aveva ad oggetto un singolo omicidio, di un civile di 62 anni, e dall’altro con l’ammissione di responsabilità dell’imputato. Certo, non possiamo ignorare che questo processo, pur se contro un pesce decisamente piccolo, ha un alto significato comunicativo per l’Ucraina. Tutto il conflitto fra Russia e Ucraina, anche negli anni passati, ha visto usare le categorie dogmatiche del diritto penale a cominciare dalla etichetta di genocidio, come arma politica autolegittimante e delegittimante nei confronti dell’avversario, ma questa non è certo un’anomalia di questo conflitto e non deve neanche portarci a rinunciare a priori a un ruolo del diritto. Sarebbe infatti ipocrita negare il valore simbolico-stigmatizzante che la giustizia penale ha in generale, ma, soprattutto, in contesti di transizione o di conflitto in corso. Il problema sorge quando questa funzione di messaggio alla collettività non è più un effetto collaterale, ma si trasforma nel fine principale del processo, distorcendone i principi e le garanzie fondamentali.

Il difensore del soldato russo ha detto che la sentenza è più severa di quanto si potesse prevedere. È pronto a fare appello e a chiedere l’annullamento. C’è il rischio che il processo sia stato condizionato dall’esigenza di trovare subito il primo, grande colpevole di questa guerra?

Sicuramente la commisurazione della pena appare a prima vista sproporzionata, ma bisognerà aspettare una sentenza definitiva per giudicare. Il diritto penale e penale internazionale giudica le condotte dei singoli in base alle regole probatorie del processo penale e non dà né un giudizio storico sul conflitto né sulle responsabilità di diritto internazionale degli Stati. Tuttavia, è chiaro che ci sarà chi interpreterà la sentenza diversamente, come spesso accade. Quando, nel 2008, Ramush Haradinaj, comandante dell’Uck in Kosovo, venne assolto dal Tribunale penale internazionale per l’ex Yugolsavia, poiché non venne raggiunta la prova necessaria in un processo penale, anche a causa dell’intimidazione dei testimoni, molti kosovari festeggiarono la sentenza come un riconoscimento della legittimità della causa kosovara alla luce del diritto internazionale.

C’è il rischio di strumentalizzazioni?

Molti leggeranno questa sentenza riguardante il sergente russo come un riconoscimento dello status di vittima all’Ucraina. Del resto, viviamo in un’epoca in cui l’auto-rappresentazione di un gruppo come vittima di un crimine internazionale è uno degli elementi di coesione politica più forti e più pericolosi al tempo stesso, perché divide fra vittime e carnefici e paralizza ogni discussione. Ciò, ovviamente, non significa che politicamente e storicamente non ci siano aggressori e vittime, ma occorre ricordare qual è la funzione della giustizia penale ed evitare che questa venga piegata ad altri scopi. I rischi degenerativi, però, non devono sottrarci alla necessità di ricordare che i crimini internazionali sono le condotte più orribili che alcuni esseri umani possano commettere nei confronti di altri esseri umani e per questo va tracciato un confine.

La Russia potrebbe a sua volta rincorrere il clamore con pene esemplari nei confronti, per esempio, dei militari del battaglione Azov?

Certo, è possibile. C’è un dato che mi pare interessante. Oltre alle corti ucraine e potenzialmente altre corti nazionali competenti, è stata avviata un’indagine della Corte penale internazionale, che tuttavia verosimilmente avrà un problema pratico di consegna di eventuali imputati russi, visto che la Russia non è uno Stato parte e che la Corte non consente processi contumaciali. Tuttavia, c’è un’altra questione di fondo, data dal fatto che si tratta di crimini di massa e con livelli di responsabilità differenti.

A cosa si riferisce?

La cosiddetta giustizia di transizione, che è già stata sperimentata anche con riferimento a conflitti in corso come nel caso colombiano, ha come presupposto la ricerca di soluzioni che siano più complesse e differenziate e che guardino al tempo stesso al passato, come la giustizia penale, e al futuro e alla pacificazione. Certo, queste soluzioni chiamano in campo un attore che sembra essere assente in questo conflitto: la politica. Non porsi il problema di una soluzione più ampia nel lungo termine, che combini pacificazione e giustizia, sembra tradire forse una mancanza di volontà o di capacità di gestire il conflitto politicamente o quantomeno un atteggiamento per cui si lascia spazio alle Procure, che altra arma non hanno se non, correttamente, il diritto penale e nei confronti degli imputati che hanno a disposizione. Insomma, la giustizia penale, da sola, in questo scenario rischia di tramutarsi in un gigante dai piedi di argilla. Vorrei aggiungere però un’altra considerazione.

Dica pure…

La persecuzione dei crimini internazionali è sempre complessa, proprio in ragione del particolare contesto politico in cui essi avvengono, della sovrapposizione di livelli giuridici e del delicato equilibrio fra le esigenze della giustizia e quelle della pacificazione. Ma la giustizia è paziente. Fra la pena per tutti e subito e l’impunità ci sono molte soluzioni differenziate, che richiedono tempo e un ruolo innegabile della politica. Politica e giustizia non sono incompatibili. Al contrario, si presuppongono e necessitano a vicenda. I rischi si creano quando vi è un’abdicazione e si chiede all’una di svolgere le funzioni dell’altra.

Giustizia Simona Musco 23 May 2022 18:25 CEST

Toghe, il concorso è un flop: nel 95% dei casi strafalcioni di diritto e italiano

Solo in 220 superano la prova scritta, ma i posti a bando erano 310. Poniz (ex Anm): «Un livello non adeguato»
avvocatura

Una vera e propria débâcle, un flop sconcertante. Il concorso per l’accesso in magistratura miete migliaia di vittime, su tutti italiano e diritto. Perché su 3.797 candidati che si sono presentati alla prova scritta soltanto in 220 sono stati ammessi all’orale, ovvero il 5,7 per cento del totale. Gli altri, secondo quanto riferito dalla commissione esaminatrice, avrebbe commesso strafalcioni di diritto e di italiano.

Il risultato è che dei 310 posti banditi con il concorso per l’accesso in magistratura del 2019 almeno 90 posti rimarranno certamente scoperti. Ed è la migliore delle ipotesi, in un panorama che già soffre per la scopertura dei posti in pianta organica: su 10.433 magistrati sulla carta, infatti, sono 1.431 i posti vacanti. A questi vanno aggiunte le 225 toghe fuori ruolo e i numerosi incarichi extra giudiziari, 768 in un anno. Un vero e proprio dramma a fronte degli impegni presi dall’Italia con l’Europa: ridurre i tempi dei processi, del 40% nel civile e del 25% nel penale. Ma stando anche all’ultimo rapporto della Commissione europea, l’Italia è fanalino di coda per numero di magistrati, a fronte di un allungamento dei tempi di risoluzione dei processi che mette in crisi i piani del nostro Paese.

La mancata copertura dei posti al concorso è dunque un problema che «deve essere affrontato», come ha più volte sottolineato la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Per ora, quel che è certo, è che via Arenula esclude categoricamente una proroga dell’età pensionabile per evitare un aumento delle scoperture. Ma intanto il ministero ha bandito un nuovo maxi-concorso per 500 posti, le cui prove scritte sono previste dal 13 al 15 luglio. Il precedente concorso era finito nell’occhio del ciclone a seguito di una serie di ricorsi da parte di alcuni candidati, che avevano sollevato dubbi anche sulla serietà della commissione. I bocciati, infatti, lamentavano la presenza di segni di riconoscimento sui compiti di alcuni dei promossi, rivolgendosi al Tar per ottenerne l’annullamento. In quel contesto, la Terza Commissione del Csm aprì una pratica, dalla quale emerse la sostanziale regolarità del concorso, nonostante alcune stranezze.

Successivamente, la stessa Commissione decise di modificare le regole di selezione degli esaminatori, scelta, generalmente, con il metodo del sorteggio, ma sulla base di alcuni parametri molto restrittivi, che di fatto limitavano la platea di sorteggiabili a pochi eletti. Lo scorso anno, invece, si decise di estendere il bacino di utenza di questo sorteggio, affidando la scelta del presidente della commissione d’esame ad un bando e non sulla base della proposta del presidente della Terza Commissione, come da prassi. Tale scelta creò però più di un malumore in plenum.

Secondo il togato Carmelo Celentano, infatti, «la commissione di concorso non è un fine ma un mezzo rispetto alla quale il ragionamento secondo cui un qualunque magistrato in grado di irrogare una sanzione penale sia automaticamente in grado anche di fare bene il lavoro di selezionatore di nuovi magistrati non è un’equazione spendibile». Cosa che, a dire dei membri della Terza Commissione, palesava una sorta di sfiducia nei confronti della stessa magistratura.

Il laico della Lega Stefano Cavanna ricordò in quella sede «che il concorso per l’accesso in magistratura è da sempre oggetto di critiche e che in questo Consiglio vi è stata l’apertura di pratiche addirittura relative al concorso del 1992». E pur non volendo sostenere che il concorso del 1992 o quelli successivi siano stati irregolari, «se l’idea della cittadinanza o di una sua parte è questa», definì «doveroso eliminare i dubbi su questi profili e il sorteggio consente di farlo». Tale metodo, aggiunse, presuppone inoltre «un grande credito della magistratura, che è ben in grado in maniera diffusa di effettuare valutazioni in sede concorsuale finalizzate a individuare i nuovi magistrati».

Il consigliere di Area Giuseppe Cascini sottolineò come «il tema dell’assegnazione dell’incarico di componente della commissione di concorso è storicamente un terreno sul quale le correnti hanno dato il peggio di sé ed è quindi da salutare con favore la scelta di un criterio basato sul sorteggio». L’ultimo concorso, dunque, ha avuto come “giudici” i commissari sorteggiati con il nuovo metodo. E il risultato, si lascia scappare qualcuno a Palazzo dei Marescialli, è proprio questo: una Caporetto, complice anche una scuola non più capace di assolvere il proprio compito.

Luca Poniz, ex presidente dell’Anm e tra i 30 membri della commissione d’esame dell’ultimo concorso, ha riferito all’Ansa di «un livello non adeguato» dei concorrenti, pur nella consapevolezza dell’«urgenza» di reclutare nuovi magistrati. La commissione si è dunque trovata davanti «una grande povertà argomentativa e povertà linguistica, molto spesso temi che ricalcano schemi preconfezionati, senza una grande capacità di ragionamento, una scarsa originalità, poca consequenzialità e in alcuni casi errori marchiani di concetto, di diritto, di grammatica. Trovare candidati del concorso in magistratura che non sanno andare a capo è un problema molto serio, io Io l’ho imparato in terza elementare».

Secondo Poniz a causare tale situazione sarebbero più fattori, a partire dal «collasso dell’attitudine formativa della scuola». E inciderebbe anche «la proliferazione» di Atenei, che tendono a promuovere tutti «perchè le Università si alimentano attraverso i risultati positivi. Credo che tutto questo non abbia portato un grande risultato alla qualità media dei laureati». Occorre ragionare anche sui corsi di preparazione in magistratura «bisogna vedere se formano davvero, se preparano a un metodo». Ma porsi questi problemi «è compito dei ministri dell’Istruzione e della Giustizia».

avvocatura
Commenti Davide Varì 23 May 2022 17:16 CEST

Così la retorica antimafia ha insabbiato il vero pensiero di Falcone

Trent’anni dalla strage di Capaci. Con gesto di rara brutalità, ancora una volta oggi viene rimossa la “poetica” del “metodico dubbio” con la quale Falcone ha affrontato le sfide del Diritto

Sono passati trent’anni esatti dalla strage che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la scorta. E nel mare di retorica che in questa giornata inonda giornali, radio e tv – e che di certo la disincantata ironia di Falcone avrebbe accolto con un ghigno sardonico e col sopracciglio alzato – quello che proprio non riusciamo a digerire è il viziaccio tutto italiano di piegare il pensiero del “caro estinto” ai propri miseri interessi, alle battaglie di basso cabotaggio.

E così, ancora una volta, assistiamo allo scempio e alla rimozione di una parte centrale del suo pensiero; si tratta della parte più scomoda e meno spendibile sul mercato delle polemiche manichee e difficilmente riducibile a slogan da intonare nelle inutili parate autocelebrative. Distraendo ogni forma di complessità dal suo pensiero articolato e addirittura sofferto, Falcone è divenuto “uomo a una dimensione”. Ma celebrarlo e nello stesso tempo deturpare le sue idee, è frutto di una violenza sottile e intollerabile.

Con gesto di rara brutalità, è stata dunque rimossa la “poetica” del “metodico dubbio” con la quale Falcone ha affrontato le sfide del Diritto. Un dubbio coltivato con cura che lo ha convinto, per esempio, della inesistenza del famigerato terzo livello, ovvero quel luogo leggendario in cui mafia e politica si fonderebbero per dar vita, nelle fantasie di molti, troppi inquirenti, al leviatano che in questi decenni avrebbe governato il paese in modo occulto. Ecco, per Falcone quel “terzo livello”, quella ossessione giudiziaria che ha portato fuori strada le indagini antimafia degli ultimi 20 anni (dal fallimentare processo ad Andreotti al teorema sulla trattativa Stato-mafia), non esisteva. «Ho detto spesso che non esiste il terzo livello – spiegò infatti Falcone -. E Sopra i vertici di Cosa Nostra non esiste nulla e non vi è affatto una connessione organica tra partiti o fette di partiti e le organizzazioni mafiose. Il fenomeno è molto più articolato e complesso e come tale molto più sfuggente alla repressione penale».

Ma non è tutto. Nessuno sospetterà che Falcone era favorevole alla separazione delle carriere. Proprio così: il magistrato simbolo dell’antimafia era convinto che l’autonomia della magistratura si sarebbe salvata separando i giudici dalle procure. “Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti».

Ma a quanto pare la lezione non è servita: dopo averlo isolato fisicamente, il grumo mediatico-giudiziario che ha generato e nutrito il pensiero unico del Paese, sta cannibalizzando il suo pensiero. Noi non ci stiamo: non è così che si celebra Falcone.

Uncategorized 21 May 2022 00:01 CEST

Calano i processi, ma la giustizia è sempre più lenta

Giustizia Simona Musco 20 May 2022 18:27 CEST

Calano i processi ma la giustizia è sempre più lenta: «Impossibile dare la colpa agli avvocati»

La Commissione europea sfata il mito dell’azzeccagarbugli. De Notaristefani: «Eccesso di formalismo il vero problema»
contributo unificato

Tanti avvocati, pochi giudici. E tempi troppo lunghi per i processi civili, che necessitano di quasi 1600 giorni per arrivare in Cassazione. Un record, in Europa, dove l’Italia, secondo il rapporto annuale sui sistemi giudiziari della Commissione europea, si piazza al primo posto, praticamente doppiando la seconda in classifica, ovvero la Spagna.

La colpa, ebbero a dire l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo e l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, sarebbe proprio degli avvocati: troppi, avevano sottolineato, con conseguente «domanda patologica di giustizia». Una teoria che, però, si scontra con i dati: nel nostro Paese, stando ancora al rapporto, il numero di procedimenti civili, commerciali e amministrativi, negli ultimi dieci anni, è pari a 10 ogni 100 abitanti. L’Italia è dunque agli ultimi posti in Europa per numero di nuove cause. Ciò nonostante, i tempi sono ancora lunghissimi: per arrivare a una sentenza di primo grado, nel 2020, sono serviti quasi 700 giorni, mentre ne servono meno di 200 ai primi dieci Paesi classificati.

Un dato che, nel 2020, è peggiorato, a causa del temporaneo rallentamento dell’attività giudiziaria dovuto alle rigorose misure restrittive introdotte per far fronte alla pandemia: nel 2018 e nel 2019 servivano poco più di 500 giorni, mentre nel 2012 erano necessari 600 giorni. Lenta anche la Francia, dove servono più di 600 giorni per chiudere il primo grado di giudizio. Per una sentenza di secondo grado in Italia sono invece necessari oltre mille giorni, mentre in Germania ne servono meno di 300.

Ma il nostro Paese è in fondo alla classifica anche per numero di giudici: l’Italia è infatti al ventunesimo posto con undici toghe ogni 100mila abitanti, contro le 25 della Germania e le 40 dell’Ungheria. Su una pianta organica di 10.433 magistrati, infatti, sono 1.431 i posti vacanti. Mentre sono circa 400 ogni 100mila abitanti gli avvocati nello Stivale, quarto nell’Ue per numero di legali in proporzione alla popolazione, dopo Lussemburgo, Cipro e Grecia. La Germania, invece, si piazza al decimo posto, con 200 legali ogni 100mila abitanti, numero che scende a 100 in Francia.

A fronte di tali numeri, è scarsa la stima della gente nei confronti di giudici e tribunali: ad avere una percezione positiva del loro grado di indipendenza è poco meno del 40%, dato che ci fa piazzare al 23esimo posto in Europa. I numeri restituiscono dunque un quadro a tinte fosche per la giustizia italiana. Ma quel che è certo, secondo il presidente dell’Unione delle Camere civili, Antonio de Notaristefani, è che la colpa non può essere addebitata agli avvocati.

«Diminuiscono le nuove cause, diminuiscono gli avvocati, ma i tempi dei processi si allungano ancora di più – commenta al Dubbio il leader dei civilisti -. Questo rapporto certifica quello che noi avvocati sappiamo da tempo: il sospetto che i tempi lunghi della giustizia italiana siano determinati dal fatto che troppi avvocati fanno cause inutili per sbarcare il lunario non è vero. I tempi di durata dei processi sono dati dal numero dei processi arretrati e dalla produttività dei giudici, che sono certamente troppo pochi».

Ma la scarsa produttività, spiega de Notaristefani, non è legata solo al numero di magistrati o al numero di fuori ruolo – 225 toghe in totale, alle quali si aggiungono i numeri degli incarichi extra giudiziari, 768 in un anno: «Quello che forse incide maggiormente sui tempi della giustizia civile è un formalismo esasperato che esiste solo in Italia – sottolinea -. Faccio un esempio: a marzo 2022, la Cassazione ha nuovamente rimesso alle Sezioni Unite la questione della validità della procura spillata su foglio separato. Sono iscritto all’albo, dei praticanti prima e degli avvocati poi, dal 1982. E di questa questione ho sentito parlare sin da allora e sistematicamente ogni tre-quattro anni. Nel 1997 il legislatore ha fatto una legge per dire che la procura spillata su foglio separato è valida. Ma la Cassazione, oggi, continua a fare sentenze e a rimettere alle Sezioni Unite la stessa questione».

Il che vuol dire disperdere una parte molto significativa dell’attività giurisdizionale in questioni di carattere formalistico. «Discutiamo delle regole del processo – continua de Notaristefani -, non di chi ha ragione e di chi ha torto. Mettendo insieme tutti questi elementi mi sembra chiaro che i tempi della giustizia si allungano». Altro problema è l’incertezza delle decisioni: «Se la Cassazione cambia idea in continuazione su tutto, chiunque sarà indotto a portare le cause fino alla Suprema Corte, perché si può sempre sperare in un cambio di indirizzo – aggiunge -. L’idea che un avvocato possa far cause inutili è poi anacronistica. Può darsi che 50 anni fosse così, e che la durata dei processi consentisse agli avvocati di chiedere compensi più alti, ma oggi il cliente paga a risultato ottenuto e non fa altro che lamentarsi della durata dei processi, quasi come se la imputasse a noi. E quanto più dura il processo tanto più diventa difficile farsi pagare».

I veri danneggiati dalla durata dei processi, insieme ai cittadini, sono dunque proprio gli avvocati. «Chiudere un processo dopo anni per il cittadino è un’ingiustizia ed è chiaro che a fare da parafulmine è l’avvocato, perché media il contatto con il mondo della giustizia – conclude de Notaristefani -. Sono cose facilmente intuibili, ma quando lo diciamo noi avvocati veniamo accusati di difesa corporativa. Ora che lo dice il rapporto Cepej speriamo che qualcuno si convinca». Nonostante i numeri impietosi con il nostro Paese, la Commissione europea ha espresso commenti entusiastici sulle iniziative politiche in fatto di giustizia. «Diamo un giudizio molto positivo delle riforme della Giustizia in Italia e ora monitereremo che effettivamente verranno realizzati gli obiettivi – ha dichiarato il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders -. Ho avuto molti scambi con la ministra Marta Cartabia nel corso dell’anno per vedere come fare progressi».

contributo unificato
Giustizia Damiano Aliprandi 20 May 2022 17:52 CEST

«Ci fu una prova prova generale della strage di Capaci». La rivelazione dell’ex ispettore vicino a Falcone

Per l’ex poliziotto della Dia Pippo Giordano, collaboratore di Giovanni Falcone «la zona non era affatto disabitata, ma nessuno sentì la necessità di allertare le forze di polizia. Una segnalazione, anche anonima, avrebbe scritto una storia diversa»
Capaci

Sono passati trent’anni dalla strage di Capaci avvenuta il 23 maggio del 1992. Morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. La detonazione provocò un’esplosione immane e una voragine enorme sulla strada. Pochi lo sanno, ma prima di compiere la strage, la mafia corleonese fece una prova generale con tanto di esplosione riempiendo una cunetta di esplosivo: la strage di Capaci in miniatura. A scoprirlo è stata la Direzione Investigativa Antimafia. A raccontare a Il Dubbio quell’episodio è Pippo Giordano, già ispettore della Dia, colui che localizzò il luogo esatto. L’ex ispettore ha lavorato con i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, e i poliziotti Ninni Cassarà e Beppe Montana, tutti vittime della mafia. Oggi in pensione, mette a disposizione le sue memorie per contribuire a ricostruire uno Stato fondato sulla legalità. La sua iniziativa è rivolta principalmente agli studenti.

Lei che attraversò la stagione più sanguinosa di Cosa Nostra, ci racconta come e quando riuscì a scoprire il luogo dove ci fu la prova generale compiuta qualche giorno prima dell’attentato?

Conobbi il dottor Giovanni Falcone, quand’ero alla Squadra mobile di Palermo, negli orribili anni della mattanza voluta da Totò Riina. A Palermo era più facile morire che vivere, tant’è che gli organi di stampa consideravano Palermo come Beirut. Ancora oggi si compie un errore storico definendo quegli anni, guerra di mafia. La realtà è un’altra. Ci fu solo una mattanza voluta da Totò Riina. Quest’ultimo con inaudita violenza, conquistò manu militare l’intera Isola. Era padrone del territorio a tal punto, che si permise prima di compiere la strage di Capaci, di fare le prove dell’attentatuni. Infatti, giorni prima del 23 maggio 1992, alcuni uomini di Cosa nostra per testare la potenza distruttiva dell’esplosione, scelsero una pubblica strada in contrada Rebuttone, nel territorio di Altofonte e imbottirono una cunetta di esplosivo. Quindi, fecero saltare in aria quel pezzo di strada e con i macchinari di Gino La Barbera (presente sul luogo) ripristinarono il manufatto, asfaltando la strada. Io ero in forza alla Dia di Roma e fui mandato a Palermo per localizzare l’esatto luogo ove era avvenuto “l’esperimento”. Fui coadiuvato da un collega della Dia di Palermo, Giovanni Lercara. Il sopralluogo, effettuato anche con l’ausilio di un elicottero della polizia, ci consentì di identificare il tratto di strada. Conclusa l’indagine presentai un dettagliato rapporto, allegando anche un fascicolo fotografico. La zona non era affatto disabitata, ma nessuno sentì la necessità di allertare le forze di polizia. Una segnalazione, anche anonima, avrebbe scritto una storia diversa.

Lei ha conosciuto molto da vicino Falcone: cosa l’ha colpito di lui? E con la sua esperienza, esistono degli “eredi”?

Incontrai la prima volta il dottor Giovanni Falcone a Palermo all’inizio degli anni ‘80, durante gli interrogatori di Salvatore “Totuccio” Contorno, che avvenivano presso il Commissariato Ps di Mondello. Successivamente, in tempi diversi sino all’autunno del 1989, lo assistetti in alcuni interrogatori di pentiti. A proposito di Contorno va ricordato che fummo costretti a spostarlo repentinamente, nascondendolo in un appartamento nello stabile della Mobile palermitana. Fu trasferito perché dentro una cabina telefonica, vicino al Commissariato, era stata rinvenuta una sagoma di un uomo con alcuni fori di proiettili imbrattati di vernice rossa. Una decina di anni dopo Gaspare Mutolo ci raccontò che l’intento di quelle minacce era di spostare Contorno in una località più consona a un attacco in forze. Lo stesso Mutolo ci riferì – citando i componenti del commando della famiglia di San Lorenzo – che Cosa nostra aveva pianificato un attentato al dottor Falcone all’uscita della Favorita in direzione Mondello, esattamente dove ancora oggi esiste la strettoia. Ci rinunciarono perché nel frattempo a Falcone era stata intensificata la scorta. Di Falcone, mi colpì la sua grande umiltà e umanità nel trattare i mafiosi. Era una persona estremamente garbata, oserei dire un produttore a livello industriale di empatia. Non si poteva rimanere insensibile al suo carisma e al suo modo di rapportarsi. E poi con quel bel sorrisetto sornione sotto i baffetti ti ammaliava. Non vidi mai Falcone alterarsi. Era di poche parole, ma era capace di fare battute sarcastiche. Mi ricordo quella rivolta a me, durante l’interrogatorio di Stefano Calzetta, al quale era presente anche Ninni Cassarà. Lei mi chiede se esistono eredi di Falcone. No, lo escludo. Guardi che a causa del mio specifico compito alla Dia, assistetti decine di magistrati non solo palermitani. Ebbene, secondo la mia valutazione pensare che possano esistere eredi di Falcone la reputo una colossale castroneria. Falcone brillava di luce propria, mentre altri di luce riflessa. Dunque, finiamola con questa pantomima, Falcone era e rimane unico. Anche Tommaso Buscetta non può avere eredi come spesso si sente dire. Lo affermo con cognizione di causa per averlo frequentato e per l’esperienza che ebbi con 8 pentiti di Cosa nostra. U Zu Masino era un uomo speciale.

In merito all’attentato di Capaci ci sono delle sentenze definitive dove è cristallizzata la modalità dell’esecuzione e anche il movente. Eppure, ancora oggi, attraverso programmi tv in prima serata, si sentono proporre svariate ipotesi. Si è fatta qualche idea al riguardo?

Non una ma diverse idee. Veda, mi sto stancando di tutti questi produttori di teoremi assurdi e soprattutto di pseudo pentiti e di tanti produttori di serial tv riconducibili a “fantamafia”. Qualcuno ha detto che ci sono “inquinatori di pozzi”. Assolutamente no, ci sono invece inquinatori di laghi, viste le minchiate che ogni giorno ci propinano e che sono immense. Noi della Dia lavorammo a tempo pieno sulla strage di Capaci. Mentre per via D’Amelio non fummo coinvolti, tranne in un episodio riguardante il pedinamento e arresto di Profeta, tirato in ballo pur sapendolo innocente da suo cognato Scarantino. La mia idea è che nonostante sentenze passate in giudicato, taluni cercano di ammorbare la verità processuale. Il continuo riferimento a servizi deviati o a trame ordite dal Ros, pur nell’ormai acclarata verità processuale, sta assumendo contorni stomachevoli. E basta fatevene una ragione, siano in uno Stato di diritto. A me sembra di assistere a pupiate ad uso e consumo dei talk show. Purtroppo, gli ingenui e facili creduloni, ahimè, abboccano e poi diventano cassa di risonanza nei social. Di solito non do consigli, ma ritengo doveroso trasgredire, dicendo che sarebbe equo e necessario che taluni personaggi occupanti posti di rilievo nelle Istituzioni, s’attaccassero u parra picca (parlassero poco) e stessero lontano dai riflettori. Intelligenti pauca.

Un’ ultima domanda. Cosa nostra, in quei tragici anni, aveva perso oppure vinto contro lo Stato?

Sicuramente in quel periodo Cosa nostra aveva vinto. La risposta dello Stato, seppure lentamente, iniziò dopo la costituzione del Pool creato dal dottor Rocco Chinnici. E infatti, l’opera di contrasto alla mafia operato dal Pool, di cui facevano parte Di Lello, Borsellino, Falcone e Guarnotta, iniziava a sgretolare lo strapotere dei corleonesi. All’epoca si creò una sinergia di grande valore tra magistratura, polizia e carabinieri. Una collaborazione mai vista in precedenza. Io penso che occorre riconoscere al dottor Rocco Chinnici, l’intelligenza di aver compreso che i mafiosi non erano affatto “scassapagghiari”, ovvero delinquenti di piccolo cabotaggio com’erano considerati prima, ma un coacervo di poteri ramificati non solo nel territorio siciliano ma anche oltre Oceano. Fu senza ombra di dubbio un’intuizione vincente. Del resto basta pensare che il “papa” (Michele Greco) prima dell’emissione dei 161 mandati di cattura, era titolare di porto d’armi. Concludo affermando che noi abbiamo vinto, ma abbiamo pagato un esoso tributo di sangue. E mentre a Palermo scorreva copioso sangue innocente, lo Stato latitava o era affetto da ipoacusia. Eravamo soli, soli e soli.

Capaci
Avvocatura Massimiliano Di Pace 20 May 2022 16:43 CEST

«Reddito degli avvocati più colpito, il covid non è stato uguale per tutti»

Nei dati di Adepp (Rete della previdenza privata) lo choc del 2020 sulle professioni. Militi (Cassa forense): «Non sarà facile riassorbire i danni dello stop alle cause»
avvocati fuga professione

I dati pubblicati recentemente dall’Adepp (Associazione degli enti previdenziali privati) sui redditi 2020 dei professionisti iscritti alle Casse associate – elaborati dal Centro studi dell’Istituto guidato da Alberto Oliveti – hanno destato non poco stupore. In effetti, tra le 21 Casse, 11 hanno visto aumentare il reddito medio degli iscritti, mentre una ha registrato una sostanziale stabilità (+0,051%).

Nove categorie professionali hanno invece visto diminuire in media i guadagni degli appartenenti al rispettivo ente previdenziale. Che buona parte del mondo professionale non abbia, in media, sofferto il primo anno di chiusure, lockdown, e rallentamento dell’attività non era facilmente immaginabile. In questo quadro potrebbe in teoria suscitare ancora più sorpresa il fatto che la categoria maggiormente colpita dalla riduzione dei redditi rispetto a tutte le professioni è stata proprio l’avvocatura. Con un calo del reddito medio nel 2020 (rispetto al 2019) del 5,961% (passando da 40.180 a 37.785 euro), la professione legale è stata la più penalizzata tra tutte le nove che hanno sofferto la pandemia, seguita a breve distanza dai periti industriali (Eppi) che, vedendo passare da 35.400 a 33.300 euro il reddito medio, hanno registrato un calo del 5,932%.

La terza categoria professionale più danneggiata è risultata essere (insospettabilmente) quella degli psicologi (Enpap), che ha segnato un -5,1%, oltre che un reddito medio tra i più modesti, essendo stato pari a 14.033 euro nel 2020. Per contro, i veterinari (Enpav) hanno visto crescere in media il loro reddito più di tutte le altre professioni, addirittura del 10,6%, sebbene in termini assoluti il loro reddito medio nel 2020, pari a 20.700 euro, rimanesse tra i più bassi tra le categorie professionali aderenti ad Adepp. Molto bene sono andate le cose agli attuari dell’Epap, che nel 2020 hanno migliorato la loro performance reddituale del 7% (secondo tasso di crescita più alto), ponendosi così al primo posto tra le 21 professioni in termini di reddito medio: 87.275 euro (va detto però che la tabella Adepp non indica i redditi di notai e farmacisti).

Al terzo posto per tasso di crescita ci sono gli agrotecnici dell’Enpaia, che nel 2020 hanno guadagnato il 5,4% in più, essendo passato il loro reddito medio da 15.705 a 16.554 euro.La tabella dell’Adepp segnala ulteriori elementi di interesse, a cominciare dal fatto che al secondo posto come livello di reddito medio si piazzano i commercialisti (Cdc), con 68.000 euro, e un aumento dell’1,88%. La terza categoria professionale più remunerativa risulta essere quella giornalistica (Inpgi-Ago), con 59.810 euro nel 2020, che però ha mostrato una leggera riduzione del 1,1% rispetto al 2019. Insomma, la libera professione può offrire prospettive reddituali molto diverse a seconda della specializzazione, e subire le crisi economiche in modo altrettanto diverso.

 

Ma quali fattori possono spiegare trend e risultati così variegati? «Non è una sorpresa – ammette il presidente di Adepp Alberto Oliveti – che i redditi siano leggermente aumentati per tutte quelle professioni che hanno dovuto fronteggiare direttamente la pandemia, come medici e infermieri, e anche come commercialisti, ragionieri e consulenti del lavoro, che hanno lavorato a valle dei vari decreti sugli aiuti per assistere i cittadini e le imprese in difficoltà. Anche nell’ambito dell’agricoltura, settore esonerato dalle limitazioni delle attività e degli spostamenti, ci sono stati segni positivi, come per esempio tra gli agronomi e forestali e gli agrotecnici. Più in generale, le evidenze mostrano che ha retto meglio chi ha potuto lavorare a distanza. Invece gli avvocati, per quanto fossero al passo con la tecnologia, si sono trovati di fronte una macchina della giustizia ancora molto ancorata alla carta, così come gli psicologi che, abituati al rapporto faccia a faccia con i pazienti, si sono trovati a interrompere gli incontri».

Sul fatto che la chiusura dei tribunali abbia pesato negativamente sul reddito degli avvocati nel 2020 è d’accordo Valter Militi, presidente della Cassa Forense, che spiega: «Nel caso dell’avvocatura ha pesato il blocco dell’attività giudiziaria, che costituisce per molti professionisti legali l’attività principale, mentre non è strano che vi siano professioni slegate dal ciclo economico, come i medici, che quindi possono anche guadagnare di più in un contesto economico difficile, come quello conseguente all’epidemia del covid. Anzi, a dire il vero noi ci aspettavamo, al momento di redigere il bilancio previsionale della Cassa forense, subito dopo la prima fase acuta della pandemia, un calo del reddito medio degli avvocati a due cifre, che avrebbe potuto sfiorare anche il -20%.

Dunque la flessione segnalata dall’Adepp va vista come contenuta, ma la circostanza più preoccupante è che la riduzione potrebbe continuare nei prossimi anni, tenuto conto dell’impostazione delle modalità di incasso delle parcelle, che normalmente avviene a termine del procedimento giudiziario. Dunque, non è da escludere che gli strascichi del covid si sentano per l’avvocatura anche nei prossimi anni, tenuto conto del rallentamento dell’attività giudiziaria, che richiederà tempo per essere riassorbita. Se a questo si aggiunge che alla crisi dovuta all’epidemia ha fatto seguito quella conseguente alla guerra, si capisce che le prospettive reddituali future sono piuttosto incerte, e sicuramente non facilmente prevedibili».

Il futuro reddituale non roseo per gli avvocati è ammesso anche da Giuseppe Iacona, consigliere e tesoriere del Cnf: «Se la chiusura dei tribunali durante l’epidemia del covid, e il conseguente differimento delle cause, può spiegare in parte la riduzione del reddito 2020, va anche riconosciuto che la crisi economica pone molti cittadini nel dover scegliere tra le spese quotidiane indifferibili e la tutela dei propri diritti, e questa circostanza impatta sull’attività degli avvocati, il cui gran numero certo non aiuta a sostenere il loro reddito. Tutto questo comporta che alcuni titolari di piccoli studi non riescono ad andare avanti, e sono costretti a chiudere, mentre gli stessi giovani possono trovare più conveniente la strada dei concorsi, inclusi quelli per l’Ufficio del processo. In conclusione, le difficoltà dell’economia rischiano di pesare sul reddito degli avvocati anche negli anni a venire».

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Uncategorized 20 May 2022 00:00 CEST

«Subito il sì all’equo compenso, in gioco la dignità degli avvocati»

Intervista Giovanni M. Jacobazzi 19 May 2022 20:32 CEST

Caiazza: «Nessuna conseguenza per chi sbaglia: le carriere delle toghe sono salve»

«Impossibile sapere quante volte vengono accolte le misure cautelari richieste dal pm: ma quel dato serve a comprendere il livello di “appiattimento” del gip». Intervista al leader dei penalisti Gian Domenico Caiazza
Caiazza

«Il tema su cui riflettere, credo molto sinceramente, è la pressoché totale assenza di ricadute, di qualsiasi genere, sul percorso professionale del magistrato». A dirlo è l’avvocato Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione delle camere penali, commentando con il Dubbio i dati dell’ultima relazione sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione.

Avvocato Caiazza, il Dubbio ha pubblicato ieri alcune tabelline estrapolate dalla relazione per l’anno 2021 sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione, presentata dal ministero della Giustizia al Parlamento l’altro giorno. Il dato che balza subito all’occhio è la completa mancanza di provvedimenti sanzionatori nei confronti dei magistrati che hanno arrestato persone poi rivelatesi innocenti. E questo anche in caso di macroscopici errori giudiziari. Si pensi, tanto per fare un esempio, che non risultano sanzioni disciplinari comminate neppure per i magistrati che si sono dimenticati agli arresti persone che invece dovevano essere scarcerate.

Guardi, è inutile insistere sugli aspetti che toccano anche la responsabilità civile dei magistrati. Abbiamo tutti visto in questi anni che il meccanismo, nel modo in cui è strutturato, non funziona affatto.

E allora che cosa si può fare?

Almeno che ci sia una valutazione di questi errori ai fini della carriera professionale del magistrato. Adesso al magistrato che sbaglia non succede assolutamente nulla. In altre parole, prosegue la sua carriera tranquillamente senza intoppi: non ci sono penalizzazioni economiche o impedimenti per il conseguimento di un incarico direttivo.

La riforma recentemente approvata alla Camera, pur fra molti mal di pancia, prevede sul punto un cambio importante di rotta. Mi riferisco al fascicolo delle performance dove dovrebbero essere inseriti gli esisti del procedimenti che il magistrato ha aperto.

Si tratta di strumenti valutativi che di fatto sono presenti nell’ordinamento giudiziario del 2007. Ci sono le schede di autovalutazione. Bisognerà vedere a regime come funzioneranno le nuove regole.

L’Associazione nazionale magistrati, comunque, ha fatto le barricate contro il fascicolo della performance, considerato come un pericolo per l’autonomia e l’indipendenza delle toghe, e ha proclamato uno sciopero che poi si è però rivelato un flop.

A parte lo sciopero, che è segno di un certo atteggiamento da parte della magistratura, io vorrei porre l’attenzione sui una circostanza particolarmente emblematica del contesto in cui ci troviamo ad operare.

Prego.

Tramite l’Osservatorio delle Camere Penali stiamo cercando in tutti i modi da anni di conoscere quante volte vengo accolte le misure cautelari, i sequestri, richiesti dal pm.

Non si trova questo dato?

No, non si trova da nessuna parte, né al ministero della Giustizia, né al Consiglio superiore della magistratura. Pare che sia un dato che non viene censito ed invece sarebbe di fondamentale importanza conoscerlo.

Perché una delle “scuse” da parte dei pm in caso di arresti poi finiti in una bolla di sapone è che i provvedimenti sono stati emessi dal gip?

Sì. È così. Vedere in dettaglio il numero di richieste respinte aiuterebbe a comprendere il livello di “appiattimento” del gip sul pm.

Molti suoi colleghi parlano anche di un doppio appiattimento: il “copia e incolla” effettuato dal gip nei confronti del pm, verrebbe effettuato da quest’ultimo riguardo all’informative della polizia giudiziaria. La conseguenza di questo modus operandi sempre più diffuso è, per estremizzare, che l’ordinanza di misura cautelare viene di fatto scritta dal maresciallo.

Il problema di fondo è che in Italia ormai manca la cultura della giurisdizione. Si è persa completamente. Ed invece dovrebbe essere riscoperta se vogliamo veramente realizzare il tanto auspicato cambio di passo in tema di garanzie e rispetto dei diritti.

Caiazza
Giustizia Simona Musco 19 May 2022 18:02 CEST

Disciplinari farsa: le toghe vengono sempre assolte

Su 50 procedimenti in tre anni nessuna condanna, ma nessuno paga per le ingiuste detenzioni. Costa (Azione): «Con il fascicolo delle performance cambierà tutto». La riforma in Aula il 14 giugno
magistrati

Cinquanta azioni disciplinari a carico di magistrati in tre anni e nessuna condanna. Il dato emerge dalla Relazione annuale sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione – 2021”, che il ministero della Giustizia ha presentato nei giorni scorsi al Parlamento. Un dato riferito alle sole scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge, senza dunque valutare tutti gli altri casi previsti dalla legge, ovvero quelli più gravi, che vanno dalla violazione di legge per ignoranza o negligenza inescusabile ai provvedimenti privi di motivazione. «Un’indecenza», commenta il vicesegretario di Azione Enrico Costa, tra i principali protagonisti della riforma del Csm, che il 14 giugno dovrebbe arrivare in Aula al Senato, lasciando così spazio per una valutazione dell’esito dei referendum, come voluto dalla Lega. Una riforma che, con il fascicolo delle performance, mira anche ad un monitoraggio più efficace delle distorsioni, secondo Costa ignorate allo stato attuale, se è vero com’è vero che i dati ripropongono – pur con le dovute variazioni dettate anche dalla pandemia – sempre lo stesso quadro. Ma andiamo con ordine: su 50 procedimenti avviati tra il 2019 e il 2021, nove si sono conclusi con una assoluzione e 14 con un non doversi procedere. Sono 27 quelli tuttora pendenti, il cui esito, stando alle statistiche, appare quasi scontato.

Ad avviare i procedimenti con la contestazione di ritardi nella scarcerazione è stata quasi sempre via Arenula, che ha promosso 45 iniziative. Le altre cinque, invece, sono opera del procuratore generale della Cassazione, che con il ministero condivide la titolarità dell’azione disciplinare. Lo scorso anno sono stati cinque i procedimenti, due dei quali conclusi con assoluzione e uno con un non doversi procedere. Mentre sul fronte delle riparazioni per ingiusta detenzione, lo Stato ha sborsato 24.506.190 euro, poco più di 12mila euro in meno rispetto l’anno precedente, in riferimento a 565 ordinanze, con una media di 43.374 euro per ogni indennizzato. Casi, questi, per i quali invece non c’è stato alcun procedimento disciplinare: il ministero ha infatti evidenziato come il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione «non è di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto». E ciò perché «la riparazione può riconnettersi ad ipotesi del tutto legittime di custodia cautelare accertata ex post come inutiliter data: di frequente, la richiesta e la conseguente adozione di misure cautelari si basa su emergenze istruttorie ancora instabili e, comunque, suscettibili di essere modificate o smentite in sede dibattimentale».

Parole che fanno indignare Costa: «Il punto è che i magistrati della Corte d’Appello tutelano i loro colleghi, dicendo nel quasi 70% dei casi che c’è concorso di colpa nelle ingiuste detenzioni – sottolinea -, esentando così da ogni responsabilità il magistrato, che è una follia pura. Ma ciò vuol dire anche che nel restante 30% ci dovrebbe essere la responsabilità esclusiva. Allora com’è che nessuno viene punito? Il ministero e la procura generale non muovono un dito. E quando questi casi arrivano al Csm è ancora peggio. È deprimente leggere questi dati». Insomma, le responsabilità non vengono affatto esplorate, secondo il deputato di Azione, sulla base di una «logica conservativa». Ma anche perché, fino ad oggi, «mancava la fattispecie disciplinare, che noi abbiamo inserito nella legge: un conto è parlare di applicazione della custodia cautelare fuori dai casi previsti per legge, un altro parlare di custodia fuori dai presupposti di legge». I dati forniscono alcune costanti: il distretto di Reggio Calabria, ad esempio, conta ben 84 ricorsi accolti sui 135 definiti nel 2021, ovvero il 62% del totale, per un totale di quasi 7 milioni di euro di indennizzo. E subito dopo, con 45 ricorsi accolti, troviamo Catania, seguita da Roma (47), Napoli (40) e Catanzaro (35). «Perché non viene disposta un’ispezione a Reggio Calabria, che detiene questo record da anni? – si chiede Costa – Perché non analizzare i fascicoli? Com’è possibile che l’ufficio gip non si ponga il problema di far pagare queste somme allo Stato, ogni anno? La risposta è semplice: perché non ha mai pagato nessuno per tutto questo». Proprio per tale motivo, sostiene il deputato, era necessario il fascicolo delle performance, che andrà ad analizzare proprio le gravi distorsioni, introducendo anche una sanzione disciplinare per il magistrato che ha indotto l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale in assenza dei presupposti previsti dalla legge, omettendo di trasmettere al giudice, per negligenza grave ed inescusabile, elementi rilevanti. «Con il fascicolo cambierà molto – conclude Costa -. A Reggio Calabria non c’è una grave anomalia? Parliamo di questo».

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Avvocatura Errico Novi 19 May 2022 17:04 CEST

«Approvare subito l’equo compenso», il messaggio unitario dell’avvocatura

In una nota congiunta, Cnf, Ocf, Cassa forense, Aiga e numerose specialistiche sollecitano il Senato a licenziare la legge che tutela i professionisti. Giovani e legalità, la presidente Masi firma con Notariato e Anm il “patto” di Cartabia
Equo compenso, la nota congiunta dell'avvocatura: "Subito il sì alla legge"

Non può essere «sottostimata» l’importanza della nuova legge sull’equo compenso. Né si può mortificare ancora la «dignità» dei professionisti. Su questi due pilastri, l’avvocatura costruisce una posizione largamente condivisa, affidata a una nota che contiene un chiaro messaggio per il legislatore: il testo sui compensi professionali già votato alla Camera «merita di essere approvato anche dal Senato».

Basta scorrere l’elenco delle sigle che condividono il comunicato per comprendere il senso della sollecitazione: dal Consiglio nazionale forense a Ocf, da Cassa forense all’Associazione italiana giovani avvocati, fino a un consistente numero di “specialistiche: Unione nazionale camere minorili, Unione nazionale avvocati amministrativisti, Associazione italiana avvocati per la famiglia e i minori, Osservatorio nazionale diritto di famiglia, Unione nazionale avvocati per la mediazione, Camera nazionale avvocati per la persona, le relazioni familiari e i minorenni (Cammino) e Associazione nazionale avvocati amministrativisti (Anai).

«L’avvocatura in tutte le sue componenti, riunita in occasione dell’incontro del comitato organizzatore del Congresso nazionale forense», si legge nella nota congiunta, «chiede a gran voce a tutte le forze politiche di portare a termine l’iter legislativo del ddl sull’equo compenso, approvando definitivamente una legge di civiltà per gli avvocati. Dobbiamo contrastare con forza», proseguono le rappresentanze dell’avvocatura, «il rischio di proletarizzazione della professione, e il provvedimento licenziato dalla Camera dei deputati, seppur in alcuni aspetti emendabile, merita», appunto, «di essere approvato anche dal Senato. Infatti, non deve essere sottostimata la portata effettiva del ddl 2419 sull’equo compenso che, al fine ristabilire un necessario equilibrio nei rapporti tra operatori economici e liberi professionisti, impone ai contraenti forti e alla Pubblica amministrazione il riconoscimento di compensi professionali rapportati ai parametri ministeriali».

E questo, ricorda l’avvocatura, «costituisce una significativa conquista nella tutela di un compenso equo, parametrato alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, sganciato da una logica di mercato che negli ultimi anni ha registrato una svilente gara al ribasso, con conseguenze non solo economiche per i professionisti, ma anche qualitative per il cittadino».

Per tali motivi, conclude il comunicato, e per scongiurare il rischio che eventuali modifiche al testo ne provochino, con un nuovo passaggio alla Camera, l’inabissamento, «non è più possibile attendere oltre ma è fondamentale raggiungere l’obiettivo, approvando entro breve una norma che dia completa e concreta attuazione all’articolo 36 della Costituzione in base al quale senza un’equa e giusta retribuzione non c’è dignità per chi lavora».

Giovani e legalità, l’intesa di Cartabia con Cnf, notai e Anm

Poco dopo il via libera al documento congiunto, via Arenula ha dato notizia poco fa dell’accordo quadro sottoscritto oggi dalla guardasigilli Marta Cartabia con Cnf, Anm e Consiglio nazionale del notariato per «promuovere attività di educazione e formazione alla legalità rivolte ai giovani».

A firmare l’intesa con la ministra, i presidenti dell’istituzione forense Maria Masi, dei notai Valentina Rubertelli e dell’Associazione magistrati Giuseppe Santalucia.

L’obiettivo di diffondere una cultura della legalità, spiega il ministero della Giustizia, sarà promosso attraverso «una serie di iniziative congiunte, come l’organizzazione di momenti periodici di confronto e approfondimento rivolti a docenti e formatori, di attività educative in materia di legalità e giustizia per le nuove generazioni e di eventi formativi, convegni e corsi per gli operatori, per le figure educative in genere, per i genitori e tutti coloro che siano interessati».

Il progetto nasce «dall’esigenza, sempre più avvertita da operatori del diritto ed educatori di fornire a minori e giovani adulti gli strumenti per sentirsi cittadini attivi e partecipi, e non solo destinatari passivi di norme di comportamento decise da altri. I giovani», prosegue via Arenula, «non hanno sempre consapevolezza delle responsabilità, civili e penali, e dei rischi che corrono con comportamenti illeciti, dei quali possono non avvertire il disvalore e la gravità. La comprensione e l’interiorizzazione dei valori espressi nelle norme, a partire dalla Costituzione, è la più efficace tra le forme di prevenzione dell’illegalità».

Ed ecco perché «magistratura, avvocatura e notariato hanno deciso di lavorare con il ministero della Giustizia, per dare il proprio contributo all’educazione alla legalità dei ragazzi». Una «commissione paritetica» tra Cnf, Notariato e Anm «studierà le modalità per la realizzazione delle iniziative, coinvolgendo anche le proprie reti territoriali». L’accordo ha durata triennale.

Equo compenso, la nota congiunta dell'avvocatura: "Subito il sì alla legge"
Uncategorized 19 May 2022 00:00 CEST

«Così la riforma ha colpito i pm e diviso noi toghe»

Giustizia Gennaro Grimolizzi 18 May 2022 20:30 CEST

Meno carcerazioni preventive e ingiuste detenzioni. Toghe sanzionate: nessuna

Via Arenula presenta la “Relazione sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione – 2021” al Parlamento. Ecco i dati
Torre del Gallo

Calano le “misure cautelari coercitive” negli anni 2020-2021 rispetto al biennio precedente. La «diminuzione significativa» è «probabilmente dovuta agli effetti della pandemia». A rilevarlo è la “Relazione sulle misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione – 2021”, presentata dal ministero della Giustizia al Parlamento. I dati esaminati parlano chiaro: nel 2021 le misure coercitive sono state 81.102, mentre nel 2018 hanno raggiunto quota 95.798.

In diminuzione, in particolare, le misure di custodia cautelare in carcere: 24.126 nel 2021, 31.970 nel 2018. Dal report emerge che una misura cautelare coercitiva su tre è di tipo carcerario (32%). Gli arresti domiciliari sono invece il 25%. Mentre il controllo a distanza con il braccialetto elettronico non è molto diffuso. Questo tipo di provvedimento riguarda solo nel 14% dei casi.

La distribuzione geografica vede il Nord Italia in testa con il maggior numero di misure coercitive personali (40,7%). Nel Sud la percentuale scende al 25,3%, al Centro si attesta al 20,4% e nelle Isole si arriva al 13,6%. I distretti di Roma e Milano sono quelli con il maggior numero di misure emesse.Via Arenula si sofferma nella propria relazione anche sui casi di ingiusta detenzione: ammonta a 24,5 milioni la somma relativa ai risarcimenti pagati nel 2021, relativi a un totale di 565 ordinanze. Anche qui il dato, elaborato dal ministero della Giustizia insieme con il Mef, è in calo rispetto al benchmark, cioè all’importo versato nel 2020, che era stato pari a 36 milioni. L’anno scorso l’importo medio dei ristori è stato di 43.374 euro (a fronte dei 49.278 euro del 2020).

Un capitolo rilevante, e significativo, riguarda i provvedimenti emessi nei confronti dei magistrati responsabili di queste misure afflittive. Nel triennio 2019-2021 le azioni disciplinari promosse per le scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge hanno interessato 50 giudici. Si tratta di un dato al quale, però, non corrisponde una conclusione dei procedimenti, che finiscono su un vero e proprio binario morto. Nessuna condanna e tempi dilatati. Sono 27 i procedimenti tuttora in corso. La sezione disciplinare del Csm in nove casi esaminati ha emesso una sentenza di assoluzione. Altri 14 fascicoli sono stati chiusi con la formula di “non doversi procedere”.

Altra sezione riguarda i procedimenti con la contestazione di ritardi nella scarcerazione. Il ministero della Giustizia ha promosso 45 iniziative: per 5 di questi casi si è attivato il pg della Cassazione, che ha anch’egli la titolarità dell’azione disciplinare. Dei 5 casi promossi nel 2021, ne sono stati definiti 3 (2 con l’assoluzione e uno con l’ordinanza di non doversi procedere). Restano in attesa di definizione 2 casi. In attesa di decisione, inoltre, i 21 procedimenti avviati nel 2020. Il ministero della Giustizia ha chiarito nella relazione presentata al Parlamento che il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione «non è di per sé indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto».

Torre del Gallo
Intervista Valentina Stella 18 May 2022 20:25 CEST

Albamonte: «Così la riforma ha colpito i pm e diviso noi toghe»

Il segretario di AreaDg Eugenio Albamonte prova a spiegare il flop dello sciopero. «Torni l’unità»
Albamonte

Sullo sciopero dell’Anm Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, ci dice: «Non ci siamo resi conto di quanto questa idea di modifica strutturale della magistratura potesse già aver intaccato l’unità al nostro interno». Come reagire? «Spingere fortemente verso una unità e contrastare queste dinamiche di parcellizzazione».

L’ex presidente dell’Anm Pasquale Grasso e Articolo101 ritengono che sarebbe necessario un passo indietro dei vertici dell’Anm dopo il risultato dello sciopero.

La scelta dello sciopero è stata adottata a larga maggioranza da una assemblea molto partecipata, sia in presenza che sotto forma di deleghe. Una volta che in democrazia si è presa una decisione, questa va attuata.

Però con un 48,50 per cento di adesioni c’è qualcosa che non ha funzionato.

Questa riforma ha come strategia quella di distinguere tra un’alta magistratura e una bassa magistratura. Da una parte la Corte Suprema di Cassazione, le cui pronunce vengono oggi rinvigorite da un miglior significato anche per le ricadute che hanno sulla carriera, insieme alla dirigenza degli uffici, a cui vengono dati strumenti maggiori e incisivi anche per esercitare la leva del disciplinare al fine di poter perseguire più efficacemente i risultati che ci si prefigge. Dall’altra parte c’è chi all’interno dell’ufficio sarà sottoposto a quelle misure che si spera verranno utilizzate in modo sapiente e virtuoso. Senza dubbio, dunque, si tratta di una riforma che crea delle faglie, anche generazionali, all’interno della magistratura: tra giovani magistrati che hanno davanti a loro sei o sette valutazioni di professionalità e magistrati più anziani, più vicini al termine della carriera e convinti di poter mantenere la schiena dritta e continuare a fare, come hanno sempre fatto, il loro lavoro. Non è un caso che l’adesione maggiore ci sia stata tra i magistrati più giovani. Quello di cui non ci siamo resi conto è quanto questa idea di modifica strutturale della magistratura potesse già aver intaccato l’unità al nostro interno.

Quindi è colpa della riforma se siete divisi.

Le dirò di più, ossia che in prospettiva si potranno creare faglie ancora più pericolose: tra civilisti e penalisti, considerato che la riforma si rivolge a tutta la magistratura ma è chiaramente concepita per ridurre la capacità della giurisdizione penale. Tra giudici e pm, in quanto gran parte di essa è concepita per legare le mani alla magistratura requirente. Tra giudici di primo grado e d’appello, e tra questi ultimi e la Cassazione, considerato che si andranno a valutare gli esiti dei procedimenti. Seguendo questo meccanismo arriveremo ad una magistratura polverizzata. L’unica reazione che possiamo avere oggi è spingere fortemente verso una unità e contrastare queste dinamiche di parcellizzazione che si sono manifestate in modo preoccupante attraverso la decisione di aderire o meno allo sciopero.

Però qualcuno deve assumersi la responsabilità di non aver compreso la divisione già in atto.

Non è colpa di nessuno. Semplicemente le varie articolazioni della magistratura hanno reagito alla riforma per come la percepiscono sulla loro stessa pelle, quindi con toni e modalità di preoccupazione differenti e anche con una diversa valutazione dell’opportunità di utilizzare lo strumento dell’astensione. Il problema è che la magistratura deve rendersi conto nella sua interezza che, al di là di quanto la riforma possa incidere sulla prospettiva professionale di ciascuno di noi, occorre custodire l’idea della magistratura che avevamo quando abbiamo iniziato a esercitare le nostre funzioni, per quanto mi riguarda negli anni ’90.

Tuttavia il prezzo da pagare per non aver compreso questa spaccatura e per aver mal gestito lo sciopero, come qualcuno sostiene, è quello di aver perso potere con il legislatore. Una cosa è fare pressione sul Senato con una Anm compatta, altro è presentarsi al tavolo della trattativa con una magistratura spaccata.

Quanto ai tempi di gestione della protesta , sono stati determinati dal fatto che i tempi del Senato, inizialmente ristretti, si sono improvvisamente dilatati. Per il resto è la prima volta che la magistratura, di solito molto unita in queste dinamiche, si presenta in modo così visibilmente diviso.

Luca Palamara in una intervista a questo giornale ieri ha detto che il risultato dello sciopero “è un segnale di sfiducia, c’è crisi di consenso”.

C’è chi questa crisi di fiducia l’ha generata e c’è chi cerca di reagire, limitando i danni creati.

Albamonte
Cultura 18 May 2022 20:14 CEST

«Tra i libri del Salone di Torino perché l’avvocatura ha i piedi ben piantati nella cultura»

L’iniziativa del Cnf e la Fai. Il Dubbio torna alla fiera di Torino con un ricco programmi di incontri
Salone del Libro di Torino

La guerra in Ucraina, la pandemia e i cambiamenti climatici. Ma anche diritti, giustizia e informazione. Sono questi i temi che animeranno l’edizione 2022 del Salone Internazionale del Libro di Torino, al via oggi negli spazi del Centro Congressi Lingotto fino al 23 maggio.

Il programma, come si evince anche dal manifesto curato dall’illustratore Emiliano Ponzi, è incentrato sul tema “Cuori Selvaggi”. Un fil rouge che accompagnerà gli appuntamenti, le conversazioni, gli spettacoli e le letture dell’iniziativa torinese a cui prenderà parte come di consueto una ricca comunità di autori, editori e lettori. «In questi tempi inquieti, in cui si mescolano turbolenze e speranze, il Salone del Libro invita la sua comunità di lettori e lettrici a correre selvaggiamente verso un orizzonte fatto di sentieri ancora non battuti e di sconfinata libertà», è il senso di questa XXXIV edizione del Salone, che si propone come vero e proprio “luogo di pace”.

«Dopo due anni di pandemia e una guerra che non potevamo prevedere – ha spiegato il direttore del Salone, Nicola Lagioia – crediamo ci sia bisogno di pensieri audaci, di gettare nel modo giusto il cuore oltre l’ostacolo per provare a immaginare un mondo migliore rispetto a quello che stiamo vivendo». A raccontare al pubblico del Salone il conflitto in Ucraina, nella Casa della pace allestita per l’occasione, ci saranno numerosi inviati sul campo, ma anche autori dall’Ucraina e dalla Russia. E di guerra e diritto parleremo anche noi del Dubbio, con un appuntamento dal titolo “Processare Putin?”, in programma venerdì mattina, durante il quale ci collegheremo con alcuni esperti di diritto in Ucraina.

Dopo il successo della scorsa edizione, Il Dubbio infatti torna al Salone insieme al Consiglio Nazionale Forense e alla Fondazione dell’avvocatura italiana con un ricco programma di appuntamenti che saranno trasmessi in diretto sui nostri canali digitali. Il nostro stand sarà un luogo di incontro tra cultura e diritto, animato da personaggi di spicco della giustizia italiana e non solo: dall’ex presidente dell’Anm, già procuratore di Milano, Edmondo Bruti Liberati, all’avvocato e professore ordinario di diritto penale all’Università di Bologna Vittorio Manes, con i quali converseremo di processo mediatico. Con Massimo Cacciari, Monsignor Vincenzo Paglia e la filosofa Chiara Lalli parleremo di biopolitica e potere, partendo dal dibattito su fine vita e maternità surrogata. Indagheremo il mondo del carcere insieme a Carmelo Musumeci, ex ergastolano ostativo, oggi scrittore. E ancora di guerra parleremo con il giornalista Toni Capuozzo. Mentre al mondo forense sarà dedicato un ciclo di incontri sul futuro della professione alla luce dei dati contenuti nell’ultimo rapporto del Censis. Saranno con noi alcuni rappresentati delle istituzioni forensi e degli Ordini locali degli avvocati, tra i quali la presidente del Coa di Torino Simona Grabbi, con la quale discuteremo in particolare di gender gap partendo dalla storia della prima avvocata d’Italia, Lidia Poet.

Saranno loro, gli avvocati, i protagonisti e i testimoni della missione che anima la Fondazione dell’avvocatura italiana, che anche quest’anno conferma il suo impegno nella diffusione della cultura giuridica messa a servizio del cittadino. «La nostra partecipazione al Salone del Libro rientra tra le attività promosse dalla Fondazione per comunicare la figura del professionista forense, che è immerso nel tessuto socio-culturale comune. Una missione comunicativa, la nostra, che riguarda non solo l’avvocato come tecnico del diritto, ma come colui che grazie alla sensibilità acquisita con la professione, riesce ad interpretare i temi della cultura e dell’attualità con la lente del difensore», spiega la consigliera del Cnf e vicepresidente della Fai, Francesca Sorbi. La quale ricorda anche il grande successo del concorso “Letteratura per la giustizia”, giunto quest’anno alla sua seconda edizione. «L’idea del concorso – sottolinea Sorbi – nasce proprio per far emergere questa particolare sensibilità degli avvocati, i quali riescono a dare voce ai bisogni dei cittadini uscendo dagli schemi tradizioni di scrittura propri del linguaggio legale». Un modo, insomma, per gli operatori della giustizia, di coniugare gli “attrezzi del mestieri” con i generi universalmente apprezzati dagli amanti della lettura.

«Il concorso è anche un’occasione per stimolare la partecipazione di tutti i professionisti che operano nell’ambito giudiziario – chiosa la consigliera del Cnf -. E con grande successo, come conferma l’ampia adesione, quest’anno, di avvocati, magistrati e persone che hanno vissuto sulla propria pelle traversie giudiziarie». Delle quasi 80 ore in corsa, la giuria – composta da un rappresentante della Fai, dal direttore de Il Dubbio, un giornalista, due scrittori e due esperti di concorsi letterari – ha selezionato tre finalisti per ogni categoria (romanzi; racconti; poesia), che saranno premiati all’evento del 21 maggio presso la Sala Verde del Salone, nel corso del quale sarà svelata la classifica finale. Domenica 22 maggio, invece, presenteremo il romanzo vincitore della scorsa edizione, “Una vita come la tua” di Domenico Tomassetti, che ha ottenuto la pubblicazione della casa editrice Bertoni.

Salone del Libro di Torino
Uncategorized 18 May 2022 00:00 CEST

Psicodramma Anm: dopo il flop, la resa dei conti

Giustizia Valentina Stella 17 May 2022 20:44 CEST

Anm, i vertici negano il flop. Ma c’è chi parla di fallimento

Resa dei conti all’interno del sindacato delle toghe, che si è giocato la possibilità di incidere sul dibattito parlamentare: i dissidenti chiedono le dimissioni dei vertici

Come nelle fasi di elaborazione del lutto, anche l’Anm in queste ore sta vivendo quella della negazione: lo sciopero non è stato un completo fallimento. Basta vedere cosa ha detto Salvatore Casciaro, segretario generale dell’Anm, a Radio 24: «Non credo sia una lettura corretta, non è stato un flop. Un collega su due ha ritenuto che la sua contrarietà, la sua protesta contro la riforma fosse così forte da doversi esprimere con lo sciopero». Eppure c’è chi, come Cristina Ornano, ex segretaria nazionale di Area Dg, ammette: «La contrarietà alla riforma è unanime, le divergenze riguardavano solo lo strumento dello sciopero».

E quindi ora c’è da capire perché l’Anm non è riuscita a creare una compatta aggregazione intorno ad una iniziativa che avrebbe dovuto lanciare un forte segnale contro una riforma fortemente stigmatizzata. Non basta dire, come sostiene qualche magistrato, che ora bisogna guardare avanti. Occorre prima guardarsi dentro per comprendere cosa non abbia funzionato. Lo ha detto anche Angelo Piraino, segretario di Magistratura Indipendente: «Dobbiamo prendere atto dell’esistenza di un significativo scollamento tra le maggioranze nette emerse nell’Assemblea Generale dell’Anm e il dato dell’adesione. È necessario capire perché i colleghi contrari allo sciopero non hanno partecipato all’assemblea per esprimere il loro dissenso. Occorre avviare una seria riflessione per comprendere e sanare questo scollamento e bisogna ascoltare con attenzione le ragioni dei colleghi che non hanno condiviso l’iniziativa».

Pure per Rossella Marro, presidente di Unicost, «da oggi ci si dovrà impegnare per rivitalizzare il dibattito interno coinvolgendo tutti i magistrati». «Sarà possibile – ha aggiunto però – esprimere una valutazione quando saranno disponibili i dati dell’età e delle funzioni svolte da chi non ha aderito». Con maggiore senso della realtà ha scritto Stefano Musolino, segretario di Magistratura Democratica: «La percezione di uno sciopero indetto in fretta per intercettare e, forse, blandire la legittima rabbia della magistratura più giovane, senza, autenticamente, coinvolgere tutta la categoria, ci aveva indotto a proporre emendamenti che sollecitavano preliminari momenti di confronto interno ed esterno alla magistratura, insieme alla possibilità di gestire, con saggia pacatezza, i tempi di indizione dello sciopero. Sono state fatte altre scelte, che abbiamo subìto, ma questo non ci ha fatto recedere – come collettivo, a prescindere da legittime scelte individuali – da un tenace impegno per la riuscita dello sciopero. Perciò, abbiamo fallito anche noi; perché questo sciopero è stato un fallimento! Dovevamo prenderci il tempo per tessere una trama narrativa che coinvolgesse tutta la magistratura, vincendo le tentazioni di un suo frazionamento che è solo l’anticamera di un suo drammatico indebolimento associativo ed istituzionale». E c’è anche chi non esclude una resa dei conti all’interno dell’Anm.

Pasquale Grasso, ex presidente dell’Anm, all’HuffPost è stato tranchant: «In qualsiasi gruppo associato, se i dirigenti si propongono un obiettivo, provano a condurvi il gruppo e poi ottengono una sconfitta di questo tipo, dovrebbero assumersi la responsabilità delle conseguenze. E dimettersi». Stesso pensiero espresso dai componenti del Cdc eletti nella lista ArticoloCentouno: «Elementari regole di responsabilità politica imporrebbero che la Gec – prendendo atto che, in un passaggio cruciale della vita associativa, soffre di un radicale deficit rappresentativo, non essendo interprete della volontà della maggioranza dei magistrati – si presentasse dimissionaria alla prossima riunione del Cdc». Intanto ieri all’interno dell’Anm si sarà vissuto un qualche psicodramma se per tutta la giornata si sono rincorse voci di un possibile comunicato che poi non è mai arrivato. Mattina e pomeriggio i vertici sono stati lì a ragionare e la stampa ad aspettare. Poi nulla, almeno fino alle 19. Anche questo è significativo delle difficoltà di interpretare una debacle e di comunicarla all’opinione pubblica, quella stessa opinione pubblica a cui l’Anm aveva detto di volersi rivolgersi in tutti questi giorni. Perché tutti questi errori uno dietro l’altro?

Prima si è indetta una conferenza stampa senza consegnare un foglio con una proposta alternativa ai subemendamenti tanto contestati, poi ci si è affrettati a convocare un’assemblea che ha visto una presenza fisica solo dell’1,8 per cento dei magistrati iscritti all’Anm, sebbene quelli favorevoli all’astensione, tramite pure le deleghe, siano stati l’11 per cento. Poi si è deliberata l’astensione il 16 maggio, senza neanche aspettare il calendario dei lavori in Senato, come pure ragionevolmente era stato ipotizzato all’inizio. Ora con il 48,50 per cento di adesione allo sciopero, l’Anm si è bruciata subito una reale possibilità di incidere sul dibattito parlamentare. Dibattito che paradossalmente potrebbe protrarsi fin dopo la data fatidica del 12 giugno, dedicata ai referendum. Questo potrebbe da un lato rendere la sconfitta dei comitati promotori – Lega e Partito Radicale – più morbida perché una mancata approvazione della riforma potrebbe rinvigorire l’appuntamento referendario, ma allo stesso tempo potrebbe risvegliare la magistratura dal torpore di queste ore post sconfitta per intraprendere una nuova battaglia che questa volta potrebbe vederla vincitrice.

Giustizia Errico Novi 17 May 2022 18:57 CEST

Feltri: «Ergastolo ostativo? Pure i mafiosi hanno diritti, la destra non è crudeltà»

Intervista al direttore editoriale di Libero, che oggi, sul proprio giornale, si è schierato contro l’ergastolo ostativo: «Una pena che ti conduce alla morte è tortura, e la tortura è fuori dalla Costituzione»
Feltri: "Ergastolo ostativo? Una tortura"

«Non mi piacciono i luoghi comuni. Non li sopporto. Mi piace pensare, giudicare le cose per come le vedo, non per obbedire a un’etichetta». Tanto è vero che Vittorio Feltri si rifiuta di stare al gioco, quando gli facciamo notare che il suo intervento di oggi su Libero a proposito dell’ergastolo ostativo è un coraggioso atto di eresia, rispetto alla visione della destra sul “fine pena mai”. «Ma poi io non sono neppure di destra. Inorridisco all’idea di una pena che ti conduce alla morte, una pena di morte lenta, di fatto una tortura».

Lo ha scritto oggi a chiare lettere sul giornale che ha inventato ventidue anni fa e di cui è tuttora direttore editoriale: «Quella sull’ergastolo ostativo è una battaglia di civiltà. Rinchiudere a vita, ovvero finché non subentri il trapasso, una persona in una cella, quantunque ella abbia compiuto reati connessi all’associazionismo mafioso, non lasciarle alcuna speranza di uscire, neppure un misero brandello, e nemmeno l’aspettativa di essere reinserita in società, equivale in sostanza al condannarla a morte precoce».

Feltri ha risposto così all’intervista rilasciata al Corriere della Sera da Giuliano Amato, presidente della Consulta, massima autorità di garanzia della Repubblica, che ha giustificato il rinvio della sentenza sull’incostituzionalità dell’ergastolo con la necessità di rispettare il Parlamento e assicurare misure rigorose per i detenuti di mafia.

È stato coraggioso, direttore.

Confesso che proprio non riesco a comprendere. Un omicidio è un omicidio. Cosa importa se è stato commesso per motivi di gelosia o per mafia o perché una persona è fuori di sé? Com’è possibile pensare che quando si tratta di mafia la pena non deve essere umana e anzi deve trasformarsi in tortura?

Ripeto: lei è un simbolo della destra conservatrice nel nostro Paese, le piaccia o no. E in quello che dice ha pochi emuli, a destra.

Perché io guardo, e penso. E arrivo a delle conclusioni che non discendono da giudizi preconcetti. Me ne infischio, di chi incasella le cose. Sono un conservatore in un Paese in cui c’è poco da conservare, ci sarebbero casomai molti valori da recuperare. Cosi come penso che anche un mafioso debba avere diritto a una pena umana, rieducativa, finalizzata al reinserimento anziché una pena di morte distillata in trent’anni, credo anche che i diritti dell’uomo sono talmente inviolabili da dover essere tutelati persino nel ventre della mamma.

Ha cambiato idea sull’aborto? Lo considera un errore?

No, non ho affatto detto questo. Credo che l’aborto sia un ripiego doloroso a cui si dovrebbe ricorrere in casi speciali. Ho le mie riserve sul fatto che possa essere considerato un pilastro della civiltà. Comunque ripeto: non è vero che sono di destra.

Di sicuro a destra quasi nessuno la pensa come lei sull’ergastolo.

Credo che il conformismo ci abbia rovinato. Come ci ha rovinato il politicamente corretto, i luoghi comuni che diventano slogan.

Ha scritto che quella sull’ergastolo ostativo è una battaglia di civiltà. Neppure i parlamentari ultragarantisti hanno il coraggio di ricordarlo.

L’ergastolo senza via d’uscita è qualcosa che va oltre la pena. Attendere la morte chiusi in gabbia è una cosa che, a pensarci, fa venire i brividi. Non mi stanco di ripeterlo: è assurdo che si facciano differenze di umanità della pena in base al reato. È una logica che credo sia fuori dalla Costituzione.

Dovrebbe. Ma in Italia chi chiede di essere garantisti coi mafiosi passa per colluso.

Sì, certo. Diventi mafioso puree tu. Ma vogliamo parlare del 41 bis? Del fatto che ti tengono sotto controllo e ti spiano anche dentro al cesso? O che stanno con le luci sempre accese? Una tortura. Ma la tortura mi pare non sia ammessa: né dalla Costituzione né dal diritto internazionale.

Amato ha giustificato il rinvio della sentenza sull’ergastolo con la necessità di rispettare il Parlamento. Ma poniamo che nei 6 mesi in più dati al Parlamento, un “ostativo” anziano, chiuso da 30 anni, muore: avremo obbedito alla Costituzione, nel negargli di riassaporare per l’ultima volta la libertà?

Secondo me la Costituzione ne esce stracciata, da una cosa del genere. Tutti se ne riempiono la bocca. Poi vorrei capire, visto che il cosiddetto ergastolo ostativo vale per chi non collabora: com’è possibile premiare chi si inventa quattro scemate? Mi pare un modo perfetto di inquinare la giustizia?

FdI diverge dalla Lega sui referendum, in particolare su legge Severino e carcere preventivo: il rigorismo sulla giustizia è così insuperabile, a destra?

Non condivido questa linea. Non sono posizioni conservatrici ma semplicemente crudeli, l’ho scritto. E non redo che la crudeltà faccia parte dell’evoluzione umana. No, a destra non mi pare si sia obbligati a essere intransigenti sulle garanzie. I diritti sono un’altra cosa. Andrebbe assicurato anche il diritto degli animali. Ecco, un Paese migliore ha attenzione per tutto, senza spazi residui di crudeltà, ma anche senza esasperare il politicamente corretto.

Senza un nemico come Berlusconi, l’Anm è così indebolita che non riesce più a ottenere adesioni di massa agli scioperi?

Mi pare che la magistratura sia sempre più piena di incoerenze. Penso a Davigo: fino a pochi mesi fa gli hanno leccato tutto il leccabile, adesso che non è più in servizio gli vanno contro. Mi pare una cosa incredibile.

Palamara è stato un capro espiatorio?

Ha detto cose che nessuno ha contestato. Ho grande rispetto per chi dice la verità. Non credo che alla fine potranno dargli una condanna penale. Certo non gli hanno dato una medaglia. Ma ha fatto quello che dovrebbero fare tutti: dire la verità.

Feltri: "Ergastolo ostativo? Una tortura"
Avvocatura 17 May 2022 16:23 CEST

Basta premifici e show: la professione di avvocato è una cosa seria…

Ci sono colleghi pluripremiati che non hanno mai scritto un ricorso in Cassazione né vi sono mai andati. Ecco la lettera-sfogo di un avvocato
Palermo

Gentilissimo direttore,

la seguo da molto e sono felice che nel panorama dell’informazione ci sia un giornale come il suo che è contro il populismo giudiziario e la giustizia forcaiola e di piazza. Ma l’argomento che le voglio sottoporre e di altra natura. Mi riferisco alla selezione degli studi legali che avviene non per meriti, ma per meccanismi fraudolenti tirati su da società appositamente costituite che producono fatturati da capogiro.

Le manifestazioni sono:

1. Avvocato dell’anno;

2. primi cento avvocati d’Italia;

3. studi legali in classifica.

La mia mail è piena di inviti per “comprare” patacche. La professione tradizionale dell’avvocato è finita.

1. Oggi l’avvocato deve apparire, essere presente sul web, nei circuiti telematici, i social, per imprimere la sua immagine in modo che la conoscenza sia immediata al primo click sui motori di ricerca;

2. Apparire significa affidarsi a guru della pubblicità per promuovere la propria persona, come se si fosse un venditore di aspirapolveri;

3. Studiare, macerarsi sui libri non conta. Il premio farlocco ti metti in mostra, semplifica l’approccio con il cliente. Quelli che studiano ci arrivano in ritardo, dormono sulle carte;

4. Studi legali dell’anno non in base a sentenze vinte, a giurisprudenza innovativa prodotta, ma in ragione di segnalazioni telefoniche, di amici, parenti, segretarie e praticanti di studio. Come i cantanti a Sanremo;

5. Il legal deve scrivere libri, ove non si sostengono tesi, propri punti di vista, ma di fatto si copiano gli altri, senza citare fonti, dunque un libro scopiazzato, intriso di plagi, con sentenze riprodotte per intero,riempitive.6-Ma avverti l’impreparazione quando parlano: semantica grossolana, lettura da gobbo, e struttura lessicale  si fa per dire) con intercalari. Ho sentito dire a master da professoresse del nulla anche ok, seguito da intercalari.

7. Suscitano ilarità quegli avvocati che non hanno nessuna menzione in riviste scientifiche e si atteggiano nell’ergersi a curatori che coordinano il lavoro altrui, come se fossero veri conoscitori della materia, ma senza aver partecipato a processi o aver ottenuto sentenze, semmai se ne appropriano. Ed il libro nasce con la stampigliatura sul frontespizio “ a cura di”. Ma a cura di che?

8. Il legal premiato deve avere un sito e mettere foto: essere visibile, fare show;

9. Costoro organizzano anche conferenze, webinar dove i poveri partecipanti accorrono, non perché interessati, ma per avere l’accredito, ai fini di squallidi crediti formativi, raccolti come i punti dei benzinai e centri commerciali. E pagano pure;

10. Convincono magistrati seri a partecipare a conferenze e dibattiti e si genuflettono come maggiordomi.

11. Miglior avvocato dell’anno, primi cento in Italia, studi in classifiche fraudolente. Ma ne conosco che non sanno scrivere o non hanno mai scritto un ricorso di Cassazione e non vi sono mai andati. Cacciate i mercanti dal Tempio.

Firmato avv. Biagio Riccio

 

 

Palermo
Uncategorized 17 May 2022 00:01 CEST

Sciopero dei magistrati, il grande flop

Giustizia Simona Musco 16 May 2022 20:35 CEST

«Inutile, politico, elettorale». Ecco perché le toghe dicono no allo sciopero

Dall’aggiunto di Roma Ielo al giudice milanese Salvini, dal pm capitolino Bianco al pg di Torino Saluzzo: le ragioni di chi ieri non ha risposto alla chiamata alle armi
condanne

«Inutile e inopportuna», una protesta che sa di «lotta politica» e offre spunti per la «campagna elettorale». La magistratura si divide sullo sciopero organizzato dall’Anm, che ieri ha chiamato a raccolta da nord a sud le toghe per protestare contro la riforma Cartabia. Ma la chiamata alle armi ha registrato le defezioni di chi, come l’aggiunto di Roma Paolo Ielo o il giudice milanese Guido Salvini, ritengono insensato scioperare. Sono diverse le voci critiche tra le toghe proprio nel giorno in cui diverse procure d’Italia hanno lavorato a ranghi ridotti. Tra queste anche quella del procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, pur convinto che «la riforma è per molti versi, quasi per tutti, assolutamente censurabile e non serve a nulla».

Una posizione sovrapponibile a quella di Ielo, secondo cui il disegno di legge è «ispirato ad una logica punitiva», come dimostrerebbero i nuovi illeciti disciplinari, il fascicolo del magistrato e la stretta sul passaggio dalle funzioni giudicanti e requirenti, norme «ai limiti della Costituzione e comunque inidonee ad imprimere una svolta positiva all’amministrazione della giustizia». Ma nonostante la riconfermata “fedeltà” all’Anm, «in questo caso e in questo momento, dissento – ha sottolineato Ielo – dall’utilizzazione dello sciopero come forma di protesta, perché inutile e inopportuna». Salvini si lancia invece in una critica ben più aspra, parlando di lotta politica nel tentativo di influenzare «l’indirizzo legislativo del Parlamento». Uno sciopero «inventato», insomma, in quanto al netto dei pareri sulla riforma «non si può scioperare contro un provvedimento votato dal legislatore a larga maggioranza e dopo numerosi confronti nelle Commissioni anche con i magistrati. I magistrati hanno il diritto e forse il dovere di scioperare, ma nel caso di leggi sulla giustizia che appaiono in modo grave e diretto anticostituzionali e certo questo non è il caso della riforma Cartabia».

Il fascicolo delle performance, anzi, basandosi sulle «gravi anomalie» potrebbe essere utile per «evitare che gravi disastri processuali, alcuni dei quali, anche a Milano, entrino, come spesso accade, addirittura quale nota di merito nel curriculum di un magistrato. E non dimentichiamo che saranno sempre altri magistrati, i Consigli giudiziari e il Csm, a redigere le valutazioni e non il ministro o il governo». Ma ad andare più in profondità sui temi della protesta è Giuseppe Bianco, sostituto procuratore a Roma, anche lui tra coloro che hanno scelto di non aderire allo sciopero. «Il problema è la legittimazione di una dirigenza correntizia che, per le note vicende, ha pochi titoli per opporsi ad una riforma che proprio quella dirigenza ha favorito – spiega al Dubbio -. Lo sciopero rilancia il vecchio slogan dell’indipendenza. Ma ormai non è più credibile dire che la minaccia venga solo dalla politica. Le vicende del 2019 hanno dimostrato che c’è anche il condizionamento interno, non meno velenoso». Il ddl dovrebbe essere approvato, salvo colpi di scena, col testo già licenziato dalla Camera. Una «riforma modesta», aggiunge Bianco, che «peggiora poco e migliora poco», perché «lascia inalterato il sistema complessivo». E il punto più volte indicato come fondamentale – il sistema elettorale – non inciderebbe in alcun modo sulle degenerazioni alle quali la politica ha dichiarato di voler mettere mano: «Le correnti più strutturate ed ideologiche sono in grado di adattarsi a qualsiasi scenario, reinterpretando ogni regola in funzione perennemente autoconservativa – spiega il pm capitolino -. Per il resto alcuni punti cancerogeni non si affrontano: uno, per esempio, è l’impasse costituzionale fra Consiglio Superiore e magistratura amministrativa. Le decisioni di annullamento del Consiglio di Stato devono essere applicate o no?». Altro tema è quello dell’obbligatorietà dell’azione penale, «sul quale sarebbe importante innestare una riflessione seria».

Nemmeno il sorteggio, da solo, basterebbe: «Il sistema è in grado di assorbire e condizionare le velleità di qualsiasi sorteggiato indipendente». E per essere efficace servirebbero «misure complementari, che riducano gli spazi rimessi alla contrattazione del sistema correntocratico», come l’introduzione di criteri «obiettivi e matematici» per le nomine, perché il merito «è un concetto vuoto, che serve solo a giustificare il gioco di mercato delle varie correnti». Tutti punti che la riforma Cartabia non affronterebbe, con la paradossale conseguenza di «favorire il sistema, perché svia l’attenzione dai punti dolenti e regala a qualche corrente egemone il pretesto per una mobilitazione modesta in chiave meramente elettoralistica, in vista delle prossime elezioni per il Csm. Se non ci fosse stata la riforma – conclude Bianco -, nei comizi elettorali una certa curia interna non avrebbe avuto letteralmente più niente da dire».

condanne
Avvocatura Valentina Stella 16 May 2022 19:01 CEST

«Così il tribunale ci ha negato il diritto di difesa in presenza»

La denuncia di due legali di Roma che più volte hanno presentato istanza per trattare l’udienza in presenza, ottenendo sempre un rifiuto

«Riteniamo profondamente lesivo del diritto di difesa il fatto che non ci sia stato concesso di discutere una causa civile in presenza»: è quanto lamentano al Dubbio gli avvocati Roberto Di Napoli e Alessandro Martini del Foro di Roma. Siamo al Tribunale capitolino, sedicesima (ex terza) sezione civile. Il 29 marzo il Gop fissa l’udienza per il 16 maggio «in modalità esclusivamente cartolare, senza la presenza delle parti», adducendo nella premessa del provvedimento anche il riferimento al dl 18/2020, approvato durante la pandemia, che lascia discrezionalità ai capi di uffici per la trattazione delle udienze.

Il 4 aprile, la difesa, «ritenendo che la complessità e delicatezza della controversia rendessero necessario esporre alcune circostanze che non si prestano a essere sintetizzate nella nota di trattazione scritta e che, comunque, sia preferibile che l’udienza si svolga nel contraddittorio simultaneo», chiedeva che l’udienza fosse fissata in presenza. Il Gop rigettava l’istanza «attese le esigenze di ruolo». Gli avvocati Di Napoli e Martini presentano nuova istanza per ribadire la necessità dell’udienza in presenza, altresì «in considerazione del valore della causa (434.431,92 euro)», e per chiedere che essa fosse assegnata al giudice togato e non a quello onorario. Nulla da fare: il Gop respinge. I due legali non demordono e scrivono a presidente di sezione e presidente del Tribunale di Roima, rammentando: «La difesa continua a ritenere che la trattazione dell’udienza in presenza debba costituire la “regola” rispetto a quanto previsto dalla normativa emergenziale».

In essa, hanno sottolineato, «il legislatore, nel contemperare l’esigenza di salvaguardia della salute dal pericolo di infezione da covid-19 col diritto di difesa, ex art. 24 Cost. e 6 Cedu, pur prevedendo che il giudice possa disporre che l’udienza che non richieda la presenza delle parti o testimoni si svolga con trattazione scritta, ha previsto, tuttavia, che le parti possano richiedere che l’udienza si svolga in presenza. È stato più volte osservato che il diritto ad una udienza orale è una importante garanzia che può essere considerata una specificazione del “diritto ad un tribunale” consacrato dall’articolo 6 della Cedu”. Inoltre l’esercizio del diritto della parte o dei suoi difensori a partecipare personalmente all’udienza non può essere impedito da esigenze organizzative dell’Ufficio. Si ricorda, peraltro, che, come riconosciuto anche dai giudici di legittimità, l’art. 111 Cost. tutela il diritto al contraddittorio, insito nel diritto di difesa, a sua volta riconosciuto dall’art. 24 Cost». Sta di fatto che il presidente del Tribunale non ha risposto per ora ai due avvocati, mentre il presidente di sezione ha replicato che «in considerazione della carenza di organico non può provvedere diversamente. Le modalità di trattazione dell’udienza attengono alla discrezionalità del giudice».

I due avvocati sono molto amareggiati: «Se rientra nella discrezionalità del giudice fissare o meno l’udienza in presenza pur dinanzi ad una tempestiva istanza formulata dal difensore, come previsto dall’art. 221 l. 77/2020, c’è, allora, il pericolo che gli avvocati siano privati del contraddittorio “simultaneo”. Che, in alcuni casi, è fondamentale, soprattutto quando sia finanche imposto di limitare le note scritte alle sole istanze e conclusioni senza nemmeno poter replicare. La legge delega per la riforma del processo civile (l. 206/2021) prevede che il giudice potrà disporre l’udienza con trattazione scritta ma sempre che non vi sia opposizione di una delle parti. Come sarà interpretata l’eventuale opposizione all’udienza con trattazione scritta? Continuerà ad essere ritenuta “non vincolante” o soggetta all’apprezzamento del giudice?». Intanto ieri l’udienza è stata rinviata al 12 settembre.

Esteri Gennaro Grimolizzi 16 May 2022 17:45 CEST

«Mi sono rifugiata in Germania, ora rischio di perdere i miei figli»

Marina Ovsyannikova, la giornalista russa che ha protestato contro l’invasione dell’Ucraina, è stata denunciata dal marito. Che lavora per una televisione governativa

Marina Ovsyannikova, la giornalista-dissidente che ha contestato nello scorso marzo l’aggressione militare della Russia ai danni dell’Ucraina, sta affrontando un periodo molto impegnativo. Le immagini andate in onda durante il telegiornale di Channel One, mentre mostrava un cartello con la scritta «No alla guerra, fermate la guerra. Non credete alla propaganda, vi stanno mentendo», hanno fatto il giro del mondo e hanno cambiato la sua vita. Il riferimento è anche alla sua attività professionale.

Dallo scorso 11 aprile Ovsyannikova collabora con il giornale tedesco Die Welt. L’obiettivo è fornire, come ha sottolineato in diverse occasioni, «un contributo per la verità, dato che le fake news sono quelle del governo russo e non di altri». L’esperienza con Die Welt è una nuova opportunità per commentare, evitando l’applicazione delle norme liberticide che in Russia impediscono di parlare della guerra e di criticare le scelte di Putin, quanto accade nel suo Paese. Per aver esposto in televisione il cartello “No war” Ovsyannikova è stata trattenuta per ben quattordici ore in una stazione di polizia, senza la possibilità di contattare i suoi avvocati – tra questi Sergei Badamshin – e i familiari.

Da qualche settimana Marina ha raggiunto la Germania, dopo una breve sosta in Moldavia. Da lì racconta l’aggressione militare avviata il 24 febbraio. Tanti i cittadini russi e ucraini incontrati in questi giorni che rendono il futuro dell’Europa e del mondo sempre più incerto, meno sicuro e con due nuovi blocchi contrapposti, proprio come sessant’anni fa. Reportage scritti e video che hanno quasi ridato alla giornalista originaria di Odessa la gioia di fare il lavoro più bello del mondo e di non pensare alle possibili conseguenze della protesta inscenata a Channel One, un tempo la sua seconda casa. Ma ad offuscare la serenità della giornalista sono le dichiarazioni dell’ex marito, che lavora per un altro canale filo-governativo, Russia Today. È stata la stessa Ovsyannikova in una intervista al giornale online Hold a riferire che l’uomo ha adito le vie legali per ottenere la custodia dei due figli di diciassette e undici anni, tuttora in Russia. Nell’intervista, rilanciata dal Guardian, la giornalista ha detto che l’ex marito impedisce ai figli di lasciare la Russia per raggiungerla a Berlino. Non manca, poi, un passaggio in cui Marina si dice rammaricata per il fatto che il figlio maggiore è «un forte sostenitore della guerra in Ucraina e la considera una traditrice». Una situazione che di sicuro rattrista la reporter russa, che sta rischiando in prima persona le scelte di libertà condivise da altri suoi connazionali.

Abbiamo contattato Marina Ovsyannikova – Il Dubbio è stato con la trasmissione Che tempo che fa l’unico giornale ad intervistarla in Italia – per invitarla al Salone del Libro di Torino e discutere sulla guerra di Putin e sulla eventualità che venga perseguito da un Tribunale internazionale. Ci ha riferito che è impossibilitata e che a breve intende tornare a Mosca. Una scelta coraggiosa e rischiosa per dimostrare, prima di tutto, che non intende apparire come una «traditrice agli occhi dei russi», senza trascurare i figli che le sembrano «quasi degli ostaggi». Ovsyannikova è consapevole di quello che le potrebbe accadere e non esclude neppure i provvedimenti più severi, dopo quanto successo a Channel One. Una consapevolezza mostrata con dignità e con il pensiero rivolto ai “suoi” popoli: quello della Russia e quello dell’Ucraina. «Forse – dice al Dubbio –, mi metteranno in prigione. Considererò questo eventuale provvedimento come una punizione per aver lavorato per la propaganda russa per così tanto tempo. La cosa principale è che non mi uccidano. Non voglio sedermi, mentre gli ucraini e i russi soffrono. È ingiusto».

Un sano realismo che, però, non cela la speranza di un cambiamento dall’interno della stessa Russia e ad opera dei russi, come affermato pochi giorni fa in una intervista alla Cnn. Conversando con Erin Burnett, corrispondente da Kiev della televisione americana, Ovsyannikova ha detto di apprezzare i colleghi che, come lei, si sono ribellati e hanno criticato il «patetico dittatore Putin». «La gente – ha commentato – inizia a notare che non è sola. Sempre più persone sono consapevoli dell’importanza di voci libere, di opposizione, e si uniscono a loro, mostrando di non sostenere più le scelte del governo russo».

Commenti Davide Varì 16 May 2022 16:43 CEST

Così finisce l’egemonia dei magistrati

Che rimarrà dello sciopero indetto dall’Anm contro la riforma Cartabia? Questo flop, si spera, ridisegnerà e cambierà i rapporti di forza tra giustizia e politica…

Che rimarrà di questo sciopero? Prima di tutto rimarrà la hybris di un piccolo gruppo di magistrati che si è scontrata col buon senso e la ragionevolezza della gran parte delle toghe. E rimarrà la cenere di un sindacato, l’Associazione nazionale magistrati, che di fatto è stato sfiduciato dai propri iscritti, trascinati in uno sciopero che non hanno capito e che non volevano.

Intendiamoci, nessuno in questo giornale ha mai negato il diritto all’agibilità politica dei magistrati, né ha mai messo in dubbio la loro legittima soggettività politica, ma è indubbio che in questi mesi abbiamo assistito a un salto di qualità delle loro rivendicazioni che ha sfiorato la legittimità costituzionale. C’è infatti stata una vera e propria discesa in campo, una “chiamata alla battaglia” contro una riforma votata dal Parlamento democraticamente eletto, che ha corroso ancora una volta il fragile equilibrio tra poteri.

Come ha infatti spiegato sul Dubbio il professor Giovanni Guzzetta, le toghe hanno rilanciano la mobilitazione non per tutelare “ le loro posizioni nell’ambito del rapporto di lavoro, ma per rappresentare la loro visione politica”. Il che li ha posti in contrasto diretto col nostro parlamento, col potere legislativo che ha il diritto e il dovere di riformare (anche) la nostra giustizia. Ma non v’è dubbio che questo flop ridisegnerà e cambierà i rapporti di forza tra giustizia e politica, e chiuderà, speriamo per sempre, la stagione dell’egemonia dei magistrati che in questi 30 anni ha destabilizzato l’equilibrio istituzionale.

Uncategorized 16 May 2022 00:01 CEST

Vittimizzazione secondaria: un fenomeno invisibile che riguarda decine di donne e di minori. Ecco la relazione della Commissione femminicidio

Uncategorized 14 May 2022 00:01 CEST

Sciopero delle toghe: nell’Anm cresce l’incubo del flop

Giustizia Simona Musco 13 May 2022 20:54 CEST

Sciopero delle toghe a rischio flop. «Chi aderisce punta solo a non rompere il fronte»

Da Nord a Sud si moltiplicano anche tra i big della magistratura le voci contrarie all’astensione proclamata dall’Anm per lunedì
concorso magistrati

«Temo non funzionerà». Le voci delle toghe da nord a sud si rincorrono e nessuno vuole esporsi più di tanto. Ma l’aria che tira è chiara: in pochi credono che lo sciopero proclamato per lunedì dall’Associazione nazionale magistrati contro la riforma del Csm possa avere percentuali tali da poter essere definito un successo. Anzi, il timore (o l’auspicio, a seconda dei casi) è proprio quello opposto: che tutto possa ridursi ad un flop.

E ciò non solo per la disaffezione alle logiche associazionistiche generate dall’affaire Palamara: dietro le strategie che regolano adesioni e defezioni, oltre all’ideologia, c’è anche il prossimo rinnovo del Csm, per il quale le correnti – riforma o meno – giocheranno come sempre un ruolo di primo piano. E proprio per tale motivo, anche nella scelta di aderire o meno allo sciopero giocherà un ruolo, almeno in parte, la logica correntizia.

L’ultimo ad esporsi pubblicamente, ieri, è stato il procuratore aggiunto di Roma Antonello Racanelli, ex segretario generale di Magistratura indipendente. «Pur avendo un giudizio critico sulla riforma Cartabia, che considero inutile perché non incide sulle degenerazioni del correntismo e dannosa perché mette a rischio il disegno costituzionale della magistratura senza migliorare l’efficienza del sistema giustizia – ha dichiarato -, non aderirò allo sciopero proclamato dall’Associazione nazionale magistrati perché lo reputo inopportuno ed inutile». Il magistrato romano non ha voluto dire di più rispetto alla sua posizione. Ma le voci, all’interno della procura di Roma, si moltiplicano di ora in ora. Se da un lato la protesta sembra aver fatto presa sui sostituti più giovani, alcuni anche molto noti come il pm Giovanni Musarò, dall’altro c’è chi raccogliendo confidenze davanti alla macchinetta del caffè arriva a ipotizzare che tra coloro che andranno regolarmente in ufficio lunedì ci saranno anche altri aggiunti, «gente esposta dal punto di vista mediatico», tra i quali Paolo Ielo e Rodolfo Maria Sabelli.

Quest’ultimo, che è anche un ex presidente dell’Anm, non conferma né smentisce: dalla fine del suo mandato, infatti, ha sempre evitato di intervenire su temi associativi. Ma sarebbe il secondo ex numero uno del sindacato delle toghe a mancare l’appuntamento con la protesta, dopo l’outing di Pasquale Grasso, che ha reso pubblica la sua decisione di non aderire definendo «poco utile» e anzi «dannoso» lo sciopero contro una riforma che comunque considera «pessima».Il clima è teso. Le giunte distrettuali, nel tentativo di compattare la base, hanno organizzato nella giornata di lunedì diversi dibattiti sul tema. Da Catanzaro a Roma, passando per Reggio Calabria e fino a Milano, i membri dell’Anm si sono divisi il compito di discutere della riforma ora ferma al Senato, coinvolgendo anche i membri dell’avvocatura. Ma anche questo, agli occhi di alcuni, appare come un segnale di debolezza. «Credo che lo sciopero non avrà un grande successo – dichiara una toga di primo piano della magistratura italiana -. Negli ultimi giorni ho visto una chiamata alle armi da parte di alcuni gruppi organizzati, che evidentemente temono un flop e stanno facendo un richiamo all’unità associativa. Questo dimostra un timore di fondo, ma è difficile fare previsioni. Però appare un azzardo una protesta del genere in un momento come questo, in cui c’è un’opinione pubblica non favorevole nei nostri confronti. Non credo che si raggiungeranno le percentuali della protesta contro la legge Castelli».

Negli uffici principali del Paese le toghe hanno deciso di riflettere fino all’ultimo secondo. «Al momento il dato sembrerebbe essere alquanto basso – spiega un alto dirigente di una delle principali procure italiane -. E risultano anche contrasti tra colleghi che prima si sono schierati e poi sono entrati in conflitto con il proprio gruppo. Ciò che è pacifico è che non c’è unità e in molti scioperano con il solo scopo di non rompere il fronte. Non mi pare ci sia grande condivisione dello strumento, pur magari condividendo le ragioni. Tutti sono convinti che in alcuni punti la riforma sia totalmente sbagliata, ma lo sciopero in un momento come questo lascia perplessi molti magistrati».Ad esporsi maggiormente sono i magistrati “dissidenti” di “Articolo 101” eletti al Comitato direttivo centrale dell’Anm, che in un documento hanno ribadito «la loro netta e assoluta contrarietà alla riforma» del Csm, che «avrebbe richiesto ben altre forme e modalità di protesta. Ci pare che altrettanta contrarietà – sottolineano – non emerga dalla posizione delle correnti, che, dopo essersi dette contrarie a parole, nei fatti hanno poi indetto una protesta tardiva, blanda e non adeguatamente pubblicizzata».

Lo sciopero di lunedì, dunque, agli occhi dei 101 «sembra fatto apposta per tener buoni gli iscritti all’Anm, senza però disturbare troppo la classe politica nel corso dell’iter di approvazione. La cosa non stupisce, dal momento che tale riforma rafforza il correntismo ed accentua quella gerarchizzazione che del correntismo rappresenta per l’appunto la causa». Proprio in ragione di tale ambiguità – si legge in una nota – alcuni di noi hanno ritenuto di non aderire allo sciopero, mentre altri vi parteciperanno. Sono infatti emersi da un lato l’esigenza di non avallare il collateralismo fra le correnti e la classe politica, che richiederebbe una netta presa di distanza da un deliberato frutto dei soliti accordi fra correnti, dall’altro quello di manifestare comunque anche all’esterno tale dissenso. Tutti, però abbiamo la consapevolezza della gravità del problema e della assoluta necessità di una ben più profonda ed incisiva azione sindacale di contrasto al progetto di legge, della quale l’associazione di categoria dovrebbe farsi portabandiera»

concorso magistrati
Esteri Massimiliano Di Pace 13 May 2022 18:41 CEST

Il tempo è scaduto: l’Eni dovrà pagare Gazprom in rubli?

Il decreto di Putin impone ai paesi importatori di servirsi di un conto bancario in valuta russa e la nostra compagnia sembra non avere scelta. Il versamento è previsto per metà maggio e tutto lascia pensare che verrà effettuato

I prossimi giorni saranno decisivi per il pagamento del gas russo acquistato dall’Italia che l’l’Eni deve effettuare a Gazprom entro la seconda metà di maggio. Come è noto, Putin aveva firmato a fine marzo un decreto, con finalità di “retaliation” nei confronti dell’Occidente, prevedendo il pagamento in rubli del gas venduto ai paesi membri dell’Ue. In realtà la lettura attenta dell’Ucaz (Decreto) del Presidente della Federazione Russa del 31 marzo 2022, aveva fatto emergere, come riportato in queste pagine il 30 aprile scorso, che nulla cambiava per gli acquirenti di gas russo, come l’Eni, salvo l’adempimento di aprire 2 conti (uno nella valuta prevista dal contratto di fornitura, e l’altro in rubli) presso la Gazprom Bank, la quale avrebbe provveduto a cambiare in rubli la valuta estera accreditata nel primo conto, vendendola tramite la Borsa di Mosca, per accreditare poi il ricavato (in rubli) nel secondo conto.

Pertanto il decreto di Putin, invece di danneggiare i paesi europei, colpiva Gazprom, che veniva privata delle pregiate valute estere, ricevendo in cambio rubli, il cui valore effettivo è piuttosto incerto, visto che le stesse banche russe si guardano bene dal vendere dollari ed euro al tasso ufficiale che risulta dai mercati finanziari. Cosa farà quindi l’Italia, o meglio l’Eni, che è la controparte italiana di Gazprom? E che cosa succederà alle famiglie italiane, visto che la maggioranza di esse utilizzano il gas per cucinare e riscaldarsi? E’ difficile immaginare un tema di interesse pubblico più importante di questo, almeno in questi giorni. Eppure non pare che ci sia grande attenzione mediatica sulla questione.

Questo ha spinto Il Dubbio ad effettuare le opportune verifiche, dalle quali emerge che l’Eni non abbia ancora avviato la procedura per l’apertura dei 2 conti presso Gazprom Bank, ma che al tempo stesso non esclude di procedere in quella direzione, circostanza che avverrà presumibilmente all’ultimo momento, e in assenza di ulteriori provvedimenti normativi comunitari impeditivi dell’apertura di quei conti. In effetti, finora, l’attuale impianto normativo comunitario delle sanzioni contro la Russia, che si trova nel Regolamento Ue 833/2014, del 31 luglio 2014 (modificato ben 14 volte, tra cui 9 volte a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa) spiega all’art. 1, lettera o), che il divieto di finanziamenti a soggetti russi, previsto dall’art. 3-bis, par. 1, lett. b), non riguarda “Pagamenti e termini e condizioni di pagamento dei prezzi concordati per beni o servizi, effettuati in linea con la normale prassi commerciale”. Pertanto, dal punto di vista legale nulla dovrebbe impedire all’Eni di dar seguito alle modalità indicate dal citato Decreto del Presidente della Federazione Russa, tanto più che l’art. 6 di questo decreto stabilisce (è il caso di ricordarlo) che “l’acquirente straniero deve trasferire i fondi su un apposito conto in valuta di tipo K (da aprire presso la Gazprom Bank, come prescritto dall’art. 2, ndr) nella valuta estera specificata nel contratto di fornitura di gas naturale, e la banca autorizzata (ossia Gazprom Bank, ndr), sulla base delle istruzioni dell’acquirente estero, ricevute secondo le modalità previste dalle regole della banca autorizzata, vende la valuta estera ricevuta dall’acquirente estero su tale conto, attraverso il trading condotto dalla società per azioni pubblica Moscow Exchange MICEX – RTS (la Borsa di Mosca, ndr)”.

Dato che il successivo articolo 7 del decreto di Putin conferma che “l’obbligazione per l’acquirente estero di pagare la fornitura di gas (in rubli, ndr) … è considerata eseguita dal momento in cui i fondi ottenuti dalla vendita della valuta estera sono accreditati … in un conto in rubli…”, tutto lascia intendere che la palla sia ora nelle mani dell’Italia. Va detto che Il Dubbio ha contattato anche l’ufficio stampa del Ministero degli Affari Esteri per conoscere la posizione ufficiale del Governo italiano su questo tema piuttosto urgente, ma nelle poche ore intercorse tra la richiesta e l’invio alle stampe dell’articolo, non era giunta nessuna indicazione in merito. In conclusione, tutto lascia immaginare che l’Eni farà quanto necessario per continuare ad avere forniture di gas, ma non bisogna sottovalutare la determinazione della Russia a reagire al sostegno europeo all’Ucraina, e soprattutto all’allargamento della Nato con la Finlandia, e presumibilmente, anche con la Svezia. Insomma, con la Russia di oggi non si può essere sicuri di nulla.

Giustizia Valentina Stella 13 May 2022 16:32 CEST

Csm, “insorgono” i penalisti campani: «La protesta delle toghe ai limiti dell’eversione»

Lunedì 16 maggio, in concomitanza con l’astensione proclamata dall’Anm, a Torre Annunziata ci sarà la contromanifestazione organizzata dalle Camere penali campane. Contraria allo sciopero anche l’Associazione nazionale forense
Avvocati e 41 bis: una lezione dalla Consulta

Lunedì 16 maggio le varie giunte esecutive territoriali dell’Anm, in concomitanza con la giornata di astensione dall’attività giudiziaria individuata dall’assemblea straordinaria del 30 aprile per protestare contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario in discussione al Senato, organizzano delle assemblee pubbliche per dibattere insieme alla cittadinanza, al mondo universitario e all’avvocatura le criticità della nuova norma: dalla gerarchizzazione degli uffici giudiziari alla separazione delle funzioni, dal fascicolo di valutazione al conformismo giudiziario.

Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia aprirà i lavori nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano, la vice presidente Alessandra Maddalena invece sarà al Tribunale di Napoli dove prenderà la parola anche il presidente dei penalisti napoletani Marco Campora. Mentre a Roma, a partire dalle 11 nell’Aula Europa della Corte di Appello, si alterneranno, tra gli altri, alla tavola rotonda il segretario di AreaDg Eugenio Albamonte e il presidente della Camera Penale di Roma Vincenzo Comi.

Ma è a Torre Annunziata invece che ci sarà la contromanifestazione dei penalisti, organizzata dalle Camere penali di Benevento, Irpina, Napoli Nord, Nocera Inferiore, Nola, Salerno, Santa Maria Capua Vetere, Vallo della Lucania. L’evento inizierà alle 15 e avrà il titolo “La riforma dell’ordinamento giudiziario – Riflessioni sul rapporto tra potere legislativo e ordine giudiziario”. «Abbiamo organizzato questo evento – ci spiega l’avvocato Enrica Paesano – per controbilanciare lo sciopero dell’Anm che a mio parere è illegittimo, forse ai limiti dell’eversione. Per decenni la politica è stata inerte nei confronti della magistratura. Ora che il Parlamento si appresta a varare una riforma, che noi come Ucpi riteniamo comunque blanda e non rispondente alle reali criticità che affliggono l’ordinamento giudiziario, la magistratura associata indice una giornata di astensione dimostrando tutta la propria indisponibilità a qualsivoglia ipotesi di cambiamento».

Interverranno: l’avvocato Renato D’Antuono, presidente della camera penale organizzatrice, il decano degli avvocati campani Nicolas Balzano, il deputato di Azione Enrico Costa, l’avvocato Gaetano Sassanelli, responsabile osservatorio ordinamento giudiziario, Ernesto Aghina, Presidente del Tribunale di Torre Annunziata, Giorgio Varano, responsabile comunicazione Ucpi. Concluderà i lavori il leader dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza, che dopo il suo intervento all’assemblea dell’Anm, dove non ha lesinato pesanti critiche, sembrerebbe non aver ricevuto inviti a partecipare alle assemblee organizzate dalla magistratura associata.

A prendere posizioni con lo sciopero Anm, anche l’Associazione nazionale forense: «Non uno sciopero illegittimo, ma semplicemente sbagliato. Non una forma di protesta contro la riforma della giustizia, ma un tentativo di difendere posizioni anacronistiche e in generale lo status quo – ha dichiarato il segretario generale Giampaolo Di Marco -. Questa è la realtà dello sciopero proclamato dall’Anm, e l’opinione pubblica ne è consapevole. Dispiace che la rappresentanza della magistratura ritenga che le prerogative di Governo e Parlamento confliggano con i propri desiderata, e che ritenga lesa maestà le valutazioni sul loro operato da parte degli avvocati nei consigli che si occupano di valutare la professionalità dei giudici», ha concluso.

Avvocati e 41 bis: una lezione dalla Consulta

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Davide Varì

Registrato al Tribunale di Bolzano n. 7 del 14 dicembre 2015

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