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Destinazioni: Cultura

Società Orlando Trinchi 23 Mar 2021 16:10 CET

«Il Covid ha nascosto l’omofobia nelle case, ma con la crisi sociale l’odio torna a galla»

Intervista allo scrittore Simone Alliva dopo la brutale aggressione ai due ragazzi gay nel metrò di Roma

«Mi preoccupano le persone Lgbt che risentono dei messaggi di disvalore e iniziano ad avere paura. Alcuni temono più di prima e tacciono. Altri per fortuna, come Jean Pierre, dicono basta e denunciano». Simone Alliva, giornalista de L’Espresso e autore, fra gli altri, del volume Caccia all’omo. Viaggio nel paese dell’omofobia (Fandango Libri), si sta riferendo a Christopher Jean Pierre Moreno, 24 anni, rifugiato nicaraguegno, vittima di un’aggressione avvenuta il 26 febbraio scorso alla fermata della metro Valle Aurelia di Roma, perpetrata da un uomo ancora non identificato, perché si stava scambiando un bacio con Alfredo Zenobio, 28 anni. Il video della violenza, girato da un loro amico, è stato ora consegnato alla polizia, cui le vittime avevano già inoltrato denuncia.

Alliva, la sera del 26 febbraio si verifica a Roma un’aggressione omofoba scatenata dal bacio fra due ragazzi. Ritiene che il clima d’intolleranza nei confronti delle persone Lgbt – di cui ha fornito accurata rappresentazione nel suo ultimo libro – non abbia conosciuto sostanziali miglioramenti?

Non possono esserci miglioramenti senza volontà politica. E la violenza nei confronti delle persone Lgbt non si è mai fermata. Durante il lockdown più duro si è spostata dalla strada alle mura di casa. Adesso, in questo momento di forte crisi economica e sociale, tornano a galla i fondi di bottiglia di una società che non ha mai fatto i conti con la propria omotransfobia. Sono molto affilati, bisogna fare attenzione. Galleggiano nell’ossessione di straniamento, di solitudine, di abbandono. Pensiamo all’aggressione dei due ragazzi di Roma: c’è un video che la racconta eppure non riusciamo a vederla per quello che è: lo specchio che riflette questo tempo. C’è chi dice che si tratta di una montatura, chi dice invece che non dovevano baciarsi. Ci stiamo perdendo completamente.

La vittima dell’aggressione, Jean Pierre Moreno, discriminato e minacciato in Nicaragua perché gay, pensava di potersi ritenere al sicuro a Roma. «Anche qui possono accadere cose del genere», conclude. La difesa e il rispetto dei diritti umani nel nostro Paese non è così diffuso e puntuale come vorremmo credere?

C’è stata una regressione evidente. Ricordo che per odiare delle categorie di persone prima è necessario disumanizzarle, considerarle appunto di un’altra specie. È successo in passato e succede oggi con i migranti, con le persone Lgbt. La strategia è intenzionale ed è messa in atto da politici spregiudicati, che cavalcano i sentimenti negativi di questo tempo. La disumanizzazione ricopre sempre un ruolo vitale nei cosiddetti crimini d’odio. E quando tu parli sempre di “genitore 1 e 2”, di educazione al gender, che cosa fai se non disumanizzare una comunità? Avviene così che l’aggressore si accanisca sull’«inferiore» e alzi il tiro.      

Se sarà identificato, l’aggressore rischia accuse di lesioni e ingiuria, senza aggravante specifica per l’omofobia. È tempo che il ddl Zan, approvato alla Camera il 4 novembre e ora fermo al Senato, riprenda il suo percorso?

Questa è una legge ferma da più di trent’anni. È arrivato il momento di dare una risposta a queste persone proprio perché ci troviamo dentro questo tempo terribile. Esistono le discriminazioni multiple: una persona Lgbt non è immune al Covid e alla crisi economica. Le discriminazioni, in questo periodo, sono aumentate, e le discriminazioni verso le persone Lgbt pesano ancora di più. Il Parlamento può lavorare anche su altri provvedimenti contemporaneamente, altrimenti sta dicendo agli italiani che è inutile, che non serve. Non un bel messaggio per chi non si è fatto ancora inghiottire dai populismi. Molti diranno che adesso c’è ben altro. Lo dicono su tutto quello che riguarda i diritti, ma da sempre. Il benaltrismo è sempre stato il paravento degli imbarazzi pavidi. Bisogna pur cominciare da qualcosa, invece.   

La politica si schiera compatta contro la violenza, per poi avanzare distinguo. La Lega puntualizza: «Non si strumentalizzino vili aggressioni per fini politici. Il nostro codice penale prevede già condanne e sanzioni adeguate per chi compie simili orribili atti». Condivide?

L’uscita della Lega è molto curiosa. Forse non sanno o fingono di non sapere che tutti i reati previsti con formule generiche vengono ad assumere un aspetto diverso e peculiare sotto il profilo criminologico, arrivando a qualificarsi come “crimini d’odio”. L’atto di bullismo nei confronti di un giovane gay non può ridursi alle lesioni personali, gravi o gravissime che siano, così come il pestaggio di una coppia lesbica non corrisponde a un semplice pestaggio. La furia omotransfobica si rivolge contro quell’individuo allo scopo di annullare la sua identità. Non è ideologia. Non è politica. I crimini d’odio esistono. Vanno sanzionati. E già lo sono: per motivi di razza, di religione o di etnia. E poi le dirò di più: non penso che tutti dentro la Lega condividano questo ordine di scuderia. La senatrice Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia alla Camera nel 2012 e oggi senatrice della Lega, portò avanti una battaglia per la legge contro l’omofobia insieme ad Anna Paola Concia, deputata del Pd. Non credo abbia cambiato idea. E penso che non sia sola dentro la Lega.

Alfredo Zenobio, partner della vittima, evidenzia che «serve prevenzione anche nelle scuole, perché altrimenti l’odio non si ferma». È d’accordo?

Si ferma l’odio con cultura, scienza, diritto e informazione. La violenza omotransfobica è fatta di aggressioni fisiche o verbali ma va distinta dalla cultura omotransfobica, che è disseminata nei linguaggi, negli atteggiamenti, negli sguardi, nelle barriere invisibili buone a separare i «diversi» dai «normali»: se sei «così» non sei uno di noi. Bisogna partire dalla scuola che forma il futuro. È con il confronto e la comunicazione che i giovani si mettono in gioco riuscendo a «sbloccare» il meccanismo dell’esclusione. E la legge Zan prevede questo con l’art. 6 e l’art. 7: iniziative di amministrazioni pubbliche e corsi di educazione al rispetto. Sappiamo che il fattore protettivo più importante per gli adolescenti è il supporto dei pari, delle scuole e delle famiglie. Il futuro è l’unico posto dove possiamo andare. E sarebbe meglio renderlo accogliente per i nostri figli e per chiunque verrà dopo di noi.

Cultura Lanfranco Caminiti 17 Jan 2021 15:24 CET

Dante e Gramsci umanisti e radicali con un’ idea fissa: costruire l’Italia

Nei “Quaderni del carcere” Gramsci riconosce a Dante di essere stato il tornitore della lingua che diventerà il primo fondamento della nostra identità
Dante

Cadono quest’anno due anniversari importanti, la nascita a Livorno il 21 gennaio del 1921 del Partito Comunista d’Italia – Sezione dell’Internazionale comunista ( che tale fu la denominazione propria fino allo scioglimento dell’Internazionale nel 1943, da cui rinacque come Partito comunista italiano) e la morte a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre del 1321 di Durante di Alighiero Alagherii o de Alagheriis, che tale era la sua denominazione propria, noto infine come Dante Alighieri o anche semplicemente: Dante.

È del primo che dovrei dire – e di quale significativo ruolo abbia avuto nella storia di questo Paese. Eppure, in qualche modo mi pare esistano delle correlazioni tra i due avvenimenti.

Non parlo qui del fervore con cui Gramsci studiò Dante: nei Quaderni del carcere scritti tra il 1929 e il 1935 durante la prigionia impostagli dalla dittatura fascista l’unico approfondimento di intenzione assolutamente letteraria e non di “critica militante” fu una riflessione di esegesi dantesca: si tratta degli appunti sul Canto X dell’Inferno; a Gramsci era rimasto inappagato durante i corsi universitari torinesi un desiderio di conoscenza. La richiesta di poter avere in carcere «una Divina Commedia di pochi soldi» è immediata ma passerà del tempo prima che la cognata Tatiana possa cominciare a consegnargli libri e riviste; tra questi, entreranno nella sua cella «il Dante minuscolo hoepliano» e La poesia di Dante di Benedetto Croce.

La “nota dantesca” è stesa tra il 1930 e il 1932. Il tema era annunciato nella prima pagina dei Quaderni, datata 8 febbraio 1929, quando il detenuto a Turi n. 7047 ha finalmente ottenuto carta e penna lungamente richieste, e un tavolino fatto fare a proprie spese: Cavalcante Cavalcanti: la sua posizione nella struttura e nell’arte della Divina Commedia. Arriverà pure, più tardi, un altro libro, Dante, Farinata, Cavalcanti del giornalista Vincenzo Morello, detto Rastignac, che diventerà obiettivo della sua critica – capovolgendo la gerarchia tradizionale fra i due personaggi del canto, Gramsci fa di Cavalcante il vero cuore dell’episodio – non meno della distinzione tra “poesia” e “struttura” che era propria della lettura crociana.

A Croce Gramsci opporrà una lettura “stretta” tra capolavori dell’arte e rapporti sociali e la Commedia mostrerebbe proprio il carattere di passaggio tra un sistema culturale del passato, medievale, e l’emergere dei Comuni, che sarà anche l’emergere di un nuovo umanesimo e del ruolo dell’intellettuale: Cavalcanti, appunto, ne è un’anticipazione.

Ma i riferimenti a Dante punteggiano tutta l’opera dei Quaderni in particolare nell’accostamento del Sommo Poeta a Machiavelli – devo dirlo che gli autori italiani più tradotti al mondo sono loro tre? – e per l’individuazione della Chiesa «come problema nazionale negativo» e per la distanza tra il «neo- ghibellinismo di Dante», che adombra una visione politica elitaria, e il Principe, in cui la crisi “delle strutture” sembra aprirsi verso la modernità. Sempre però Gramsci riconosce a Dante di essere stato il tornitore di quella lingua che diventerà il primo fondamento dell’identità nazionale. E forse qui potrei cominciare a dire propriamente di ciò di cui dovrei dire: il Partito comunista italiano ha sempre fatto dell’identità nazionale un elemento distintivo. La sua “anomalia” – essere il Partito comunista più forte d’Occidente, in un’Europa tagliata a metà dalla cortina di ferro – ha le sue radici propriamente in questo carattere nazionale, in questa forte appartenenza nazionale. Non che a Livorno fosse propriamente così. La nascita fu disagiata – la sede in cui si recarono i delegati comunisti che uscirono al canto dell’Internazionale dal Teatro Goldoni dove si era consumata la crisi del Partito socialista nel suo XVII Congresso era un vecchio teatro, il San Marco, diventato deposito militare, e non aveva sedute e si dovette stare tutti in piedi e con gli ombrelli, perché dalle finestre rotte e dal tetto entrava acqua a dirotto, raccontò poi tanti anni dopo su Rinascita Umberto Terracini, in Il 21 gennaio 1921 incomincia la lunga giornata senza crepuscolo.

Soprattutto – era pieno di delegati stranieri comunisti e si svolse sotto il vigile sguardo di delegati russi dell’Internazionale. D’altronde, Lenin e Trotsky non avevano lasciato margini di dubbio: bisognava uscire dal rapporto con i “riformisti” e costruire un partito proprio. I compagni sovietici avrebbero dato il loro supporto. Questa “golden share” russa durò a lungo, almeno fino allo strappo di Berlinguer.

Eppure, tra i tormenti storici di un’esperienza comunque straordinaria questo carattere “nazionale” – una lettura acuta dei fenomeni sociali, economici, culturali delle classi e delle élite italiane, dei loro mutamenti e delle loro permanenze – non si spense mai.

Merito del lavorio di Gramsci, certamente, gigantesca figura che nel “dolce stil novo” delle sue scritture in carcere – lui, in esilio come Dante, lui che come Dante crede nel ruolo civile della letteratura, lui che come Dante crede nella possibilità della salvezza umana – traccia i fondamenti di una cultura politica a venire.

Ma non solo: come non leggere un filo rosso di continuità tra il concetto di egemonia e la lettura della questione meridionale con la svolta di Salerno e il compromesso storico?

Il crepuscolo, nonostante la ferma intenzione di Terracini, comunque arrivò.

La “lingua comunista” si disperse in mille dialetti – che neanche più la guerra intestina fra guelfi bianchi e guelfi neri al tempo di Dante potrebbe dar conto.

E io non so se questo abbia fatto poi davvero bene a questo Paese.

 

Dante
Cultura Chiara Nicoletti 20 Dec 2020 11:10 CET

Castellitto: «Così ho fatto rivivere le parole di Eduardo in corpi e voci di oggi»

È con l’ingenuità, la lucidità, l’ironia e la lungimiranza del genio di Eduardo De Filippo che Rai1, il 22 dicembre, ci accompagna verso il Natale. In prima serata arriva “Natale in Casa Cupiello” di Edoardo De Angelis, trasposizione cinematografica dell’opera del grande drammaturgo e attore napoletano. A pronunciare la storica frase «questo Natale si è presentato come comanda Iddio», sarà Sergio Castellitto che con umiltà e consapevolezza raccoglie la complessità del ruolo di Luca Cupiello, abbracciandone l’essenza.

Le parole di Castellitto sono piene di dedizione per il grande maestro Eduardo De Filippo e per Edoardo De Angelis che ha saputo trovare la sinergia tra teatro e cinema, passato e presente: «Credo di essere abbastanza umile e intelligente da non lanciare sfide a nessuno, nel senso che non mi sono confrontato con Eduardo perché è inarrivabile», chiarisce subito Castellitto in conferenza.

E aggiunge: «Ho fatto l’attore, ho recitato un ruolo, un protagonista straordinario, un personaggio cechoviano, Luca Cupiello. L’ho fatto preso per mano da Edoardo De Angelis che ci ha accompagnato in questa gioielleria di emozioni, un testo che, per i conflitti che racconta, per il mischio straordinario tra comicità e dramma, è davvero una sorta di percorso che ogni personaggio fa dentro questa storia».

La complicità e l’affinità tra Sergio Castellitto e Edoardo De Angelis su “Natale in Casa Cupiello” è stata tale che la produzione del film, Picomedia, ha già annunciato che Edoardo De Angelis dirigerà nuovamente Castellitto in due opere di De Filippo trasposte cinematograficamente: “Non Ti pago” e un’altra ancora da definire. Sergio Castellitto dimostra di aver colto l’essenza di Luca Cupiello anche grazie al modo in cui ce lo descrive, come se fosse la prima volta che facciamo la sua conoscenza: «Luca è un vecchio, il più vecchio di tutti eppure in questo mondo di adulti, è l’unico che riesce a conservare la potenza del bambino, dell’innocente. Ogni anno quest’uomo prende i cartoni, i pupazzi di terracotta e cerca di ricomporre i pezzi emotivi, i conflitti, i sentimenti e i risentimenti di una famiglia che oggi definiremmo disfunzionale. Il fesso Luca, attraverso questa messa in scena del presepe cerca di ricomporre questi pezzi e la nostalgia dell’amore». Accanto a Sergio Castellitto nel film di De Angelis, Marina Confalone nel ruolo della moglie Concetta Cupiello, Pina Turco e Adriano Pantaleo in quello dei figli Ninuccia e Tommasino. In attesa del 22 dicembre, con Edoardo De Angelis approfondiamo il modo in cui ha, per citare Castellitto, «estratto il cinema» dal testo di Eduardo De Filippo.

La direttrice di Rai Fiction Maria Pia Ammirati ha detto: «Rivisitare il teatro di Eduardo è un impegno dovuto, una memoria da custodire e rinnovare». Come ha accolto questo “impegno”?

L’ho fatto con una certa spericolatezza perché Eduardo fa parte di me. La sua opera è patrimonio dell’umanità ma c’è una parte di umanità più limitrofa di cui io credo di far parte per motivi anagrafici, di passione e anche perché questo autore ha influenzato profondamente il mio modo di vedere il mondo. Lavorare sulla sua opera quindi è stato come lavorare su un testo che conoscevo talmente tanto bene da poterlo considerare davvero mio e quindi queste parole non le ho prese in prestito ma mi appartengono di diritto. Le ho usate con il rispetto che si deve alla meraviglia delle sue parole ed anche con la libertà di poterle mescolare in un tessuto umano fatto di persone che vivono qui e oggi. Bisognava, lavorando sul testo, fare tabula rasa di ciò che è stato Eduardo, lavorare sulle sue parole meravigliose che potessero vivere in corpi e voci nuove. La scommessa è stata quella di dimostrare quanto queste parole oggi vibrino con la stessa potenza, anzi rigenerata nelle donne e uomini di oggi. Questa operazione ha avuto esiti liberatori perché il vero patrimonio di Eduardo, al di là della sua interpretazione, sono i testi che ci ha lasciato, un tesoro all’interno del quale più si scava più emergono materiali preziosi che si possono usare e spendere nel teatro della vita.

Proprio sull’oggi Eduardo De Filippo disse che bisognava andare oltre i maestri perchè ci voleva anche chi ci raccontasse la vita di tutti i giorni. In quest’ottica ha deciso di ambientare il film nel 1950, anno sospeso tra distruzione e ricostruzione, proprio perché si avvicina a questo 2020?

Chiaramente fare un film oggi ha una connotazione molto particolare, l’anno che stiamo vivendo è complesso e doloroso, è un anno di distruzione ma contiene anche attaccamento forte alla vita e al desiderio di ricostruire. Ho quindi collocato questa storia in un altro anno emblematico che è il 1950, anno in cui si veniva dalla distruzione della guerra ma la società si stava ricostruendo e stava nascendo la borghesia, che poi è il terreno principale del teatro di Eduardo. Però, non ho pensato né al teatro né ad Eduardo interprete quando ho fatto questo film, ho solo preso in mano i suoi testi perché adattare una sua opera significa considerarla all’interno della complessità di tutte le sue altre opere e significa anche analizzare tutte le revisioni di questo stesso testo che lui ha realizzato nel corso degli anni. La trasposizione che voi vedete oggi è una sorta di distillato di tutte le edizioni di Natale in casa Cupiello, messa a disposizione di un nuovo linguaggio in cui il copione teatrale diventa sceneggiatura cinematografica.

Si è parlato di tesori nascosti nell’opera di Eduardo. Qual è la lezione che ha imparato in questo adattamento e che applicherà nelle prossime trasposizioni, a partire da “Non Ti pago”?

Ci ho preso gusto, in effetti, perché è un privilegio lavorare su testi del genere. Sicuramente ho messo a punto una sorta di approccio molto organizzato dal punto di vista metodologico perché questi testi vivono nelle pareti di casa e devono continuare a vivere lì. Andrò fuori soltanto quelle volte in cui sentirò che nel testo c’è un sottinteso che richiede un approfondimento e magari l’audiovisivo è un’occasione per poterlo fare. In questo caso per esempio, la relazione tra Tommasino e Ninuccia nel testo originale di De Filippo non era raccontata. Con una piccola sequenza io invece ho voluto far vedere la fratellanza tra questi due così come ho voluto mostrare Luca Cupiello nell’unico luogo dove viene rispettato, il luogo dei presepi. Non ho mai trasformato però un fuori scena in qualcosa che fosse in campo, perché lui ha scritto che doveva accadere fuori e qualcosa che accade fuori riverbera nell’interno con una forza ancora maggiore di se accadesse all’interno e quello non l’ho cambiato e non lo cambierò.

 

Cultura Franco Insardà 20 Nov 2020 09:08 CET

Toni Ricciardi: «Dopo 40 anni dal terremoto dell’Irpinia serve una memoria condivisa»

Il terremoto dell’Irpinia analizzato a distanza di quarant’anni da Toni Ricciardi, storico delle migrazione presso l’Università di Ginevra
terremoto dell'Irpinia

Quel 23 novembre 1980 Toni Ricciardi aveva appena due anni e mezzo e non era in Irpinia, pur avendo la mamma di Sant’Angelo dei Lombardi e il padre di Castelfranci. Ricciardi, storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, ha scritto “Il Terremoto dell’Irpinia” (Donzelli editore) con altri due conterranei, Generoso Picone, una delle firme più prestigiose del Mattino, e Luigi Fiorentino, oggi capo di gabinetto del ministro dell’Istruzione e presidente del centro di ricerca per lo studio del pensiero meridionalista “Guido Dorso” di Avellino. Proprio lunedì 23 novembre Rai3 trasmetterà il docufilm “Il Terremoto. Irpinia 1980” di Alessandro Rossi e diretto da Mario Maellaro, con la consulenza storica di Ricciardi.

Professore, nel 1980 il terremoto dell’Irpinia, oggi la pandemia. Le dinamiche sembrano simili: prima grande solidarietà, poi polemiche e speculazioni politiche.

Sono entrambi elementi catastrofici e, quindi, processi di accelerazione della storia. Quando questo accade si accendono i fari del mondo. Il terremoto dell’Irpinia è avvenuto su un territorio che sembrava appena uscito dalla Seconda guerra mondiale. Nel caso del Covid l’attenzione è stata catalizzata su tutto quello che non funziona: scuola a distanza, banda larga, fino alla sanità. Si ha l’impressione che ci si renda conto di quello che avviene solo quando arriva il momento dell’ accelerazione della storia. Gli altri aspetti, la solidarietà e la polemica, sono elementi inizialmente emozionali. Poi arriva la speculazione tra interessi territoriali contrapposti. Così come è successo con il terremoto dell’Irpinia, quando per la prima volta nella storia repubblicana il potere politico era collocato a Sud e, guarda caso, nella zona del cratere. Nel libro, infatti, a più riprese ci poniamo la domanda: come è possibile che proprio in quegli anni nasca la “questione settentrionale” su fondi che andavano al Mezzogiorno, ma gestiti dai grandi consorzi e dalle imprese del Nord.

Quarant’anni sono sufficienti per una memoria condivisa del terremoto? Sono ancora vivi molti dei protagonisti, alcuni ne hanno una lettura completamente diversa.

Esistono delle motivazioni reali che vanno accettate da parte di chi ha vissuto in prima persona quella tragedia. Parallelamente, però, ci sono i “certificatori locali del danno”. Quelli che hanno costruito tutta la loro esistenza e la loro fortuna “sparando” addosso a un territorio e alle sue difficoltà. Si potrebbe parlare di “professionisti del danno”, mutuando Leonardo Sciascia, ricordato in questi giorni per il suo articolo del 4 dicembre 1980 pubblicato su Il Mattino “Quei presepi fanno comodo” nel quale giustamente sottolineava come quei paesi già fossero stati spazzati via da decenni di emigrazione. Fino a oggi sul terremoto dell’Irpinia c’è stato un racconto giornalistico, noi ci siamo sforzati di fare una ricerca storica. Una memoria condivisa si forma anche con l’ammissione da parte dei protagonisti di quel periodo di aver realizzato o permesso di realizzare palazzi costruiti male. Sulla ricostruzione c’è un dato molto strano, evidenziato bene nel docufilm che andrà in onda lunedì prossimo su Raitre. Molti, cioè, puntano il dito sulla ricostruzione dei paesi e sulla difficoltà di riconoscersi nei luoghi. Ho riflettuto, ho parlato con molti amministratori locali, io stesso lo sono stato per dieci anni, e ho toccato con mano le realtà. Molti mi hanno detto che le persone nei centri storici non volevano più abitarci, anche prima del terremoto. Volevano avere le loro comodità, poter arrivare con la macchina vicino casa, avere appartamenti su uno stesso piano. Il 23 novembre 1980 va storicamente contestualizzato nell’Italia che era quella delle televisioni commerciali, della “Milano da bere”, che tentava di uscire dagli anni di Piombo. Arrivare da turisti a Conza vecchia è sicuramente suggestivo, ma viverci nella quotidianità non è la stessa cosa. Tornando alla memoria condivisa non sono d’accordo con quelli che dicono “non voglio condividere nulla con chi ha fatto spreco e malaffare”. Quella è la cronaca, la storia agisce su un piano diverso, mette insieme tutti gli elementi e li analizza. Il 14 luglio 1789 è la data simbolo della Rivoluzione francese, ma su quell’evento siamo arrivati al milionesimo libro, con analisi sempre più attente a ogni aspetto della vicenda.

Dal libro emerge un giudizio sull’industrializzazione non negativa, eppure Giuseppe Zamberletti, intervistato dopo il terremoto di Amatrice con me fu chiaro: “nulla da dire sulla ricostruzione privata, mentre non ero d’accordo sui nuclei industriali nelle zone agricole”.

È giusto fare la distinzione tra ricostruzione delle aree terremotate e insediamenti industriali. In questo secondo caso si è trattato di un tentativo di recuperare un “non investimento” in queste zone dall’Unità d’Italia. Non c’è dubbio che le aree industriali furono troppe, ci fu il malaffare, lo spreco e i famosi “prenditori”. Bisogna, però, dire che ci sono delle realtà industriali che ancora oggi rappresentano un barlume di speranza per quelle zone. È di questi giorni la notizia che l’azienda che produce i congelatori per conservare il vaccino anti- Covid della Pfizer è a Nusco. Senza dimenticare la Ferrero di Balvano, che ha occupato pagine e pagine della relazione della commissione parlamentare presieduta da Scalfaro, dove si produce il biscotto più venduto al mondo, con 400/ 500 assunzioni ogni anno. Non si tratta di assolvere, ma di analizzare la vicenda nella sua complessità. Abbiamo il dovere civile, morale, intellettuale e storiografico di andare oltre a una narrazio- ne che è ferma al 1991: alla commissione d’inchiesta parlamentare. In quel momento si verificò il tentativo di abbattere un certo sistema politico e quella commissione era presieduta da chi l’anno successivo fu eletto presidente della Repubblica.

Come sottolineate nel libro, l’Irpiniagate fece e fa passare in secondo piano la tragedia umana.

Il terremoto di per sé non è una catastrofe. Lo diventa nel momento in cui entra in contatto con gli insediamenti antropici. La maggioranza delle vittime morirono in costruzioni moderne, spesso frutto della speculazione edilizia italiana, ben documentata anche in “Mani sulla città” di Francesco Rosi, nella assenza quasi totale di legislazione in materia. La stessa Protezione civile, passata alla storia come uno dei risultati del terremoto dell’Irpinia, era già stata prevista dal legislatore nel 1970, all’indomani della tragedia del Belice. Non partì perché l’allora Pci, più forte a livello territoriale, fece impugnare dalle neonate Regioni il dispositivo, chiedendo una gestione regionale. Torna anche qui il parallelo con quello che sta accadendo in queste settimane con l’emergenza Covid.

Lei parla delle generazioni nate nei prefabbricati, cita gruppi musicali della zona e siti online di denuncia, ma sottolinea anche l’aumento dei suicidi e delle dipendenze. Tragedie legate al terremoto o alle migrazioni che hanno storicamente caratterizzato l’Irpinia?

Il decennio della ricostruzione creò una sorta di stasi delle migrazioni che ha interessato due generazioni. A distanza di quarant’anni la provincia di Avellino passa da 430mila abitanti ai circa 413mila del gennaio 2020. Per trovare un dato così basso bisogna tornare al 1921. È frutto della ricostruzione post terremoto? No, è bene ribadirlo. Il problema dello spopolamento delle aree appenniniche, subalpine e di quelle interne in Europa ci interessa da decenni. Così come intorno ai grandi insediamenti urbani nascono periferie, dove il consumo di droga e i tassi di suicidi sono più alti. Stessa cosa avviene nei paesi dell’entroterra. In tutta ’ Alta Irpinia c’è un solo cinema e non ci sono strutture culturali. Per i giovani che ancora abitano in quei posti la qualità della vita non può essere legata soltanto alla bellezza del paesaggio.

Un altro irpino, il professor Biagio de Giovanni, dieci anni fa, in occasione del trentennale, mi disse: “O ci sarà una responsabilizzazione delle classi dirigenti oppure il Mezzogiorno sarà sempre più isolato con conseguenze imprevedibili, ma facilmente immaginabili”.

Quello che dice il professor de Giovanni è corretto, ma non va dimenticato che la classe dirigente è composta da politici, sindacalisti, intellettuali e giornalisti. Sono d’accordo con Emanuele Felice ( professore di Politica economica all’Università “Gabriele D’Annunzio” di Pescara ndr.) quando contesta la vulgata che i ritardi, gli sprechi del Sud sono tutti figli della classe dirigente.

Questo accade quando ci sono degli interessi territoriali contrapposti e rispetto a interessi deboli ne prevalgono altri. Faccio un esempio recente. Il ministro Provenzano era riuscito a far destinare il 34% dei fondi per il Mezzogiorno, ma appena è arrivata la pandemia sono stati tagliati proprio quei soldi. E la “questione settentrionale” è ancora lì, anche se in forma più latente. L’irpino Fiorentino Sullo è stato un esempio di classe dirigente di altissimo livello. Venne messo politicamente da parte non, come semplicisticamente si narra, dopo lo scontro con Ciriaco De Mita, ma guarda caso nel momento in cui propose la legge di riforma urbanistica e mise in discussione il sistema economico, non meridionale, ma del Paese.

 

terremoto dell'Irpinia
Cultura Franco Insardà 5 Nov 2020 10:54 CET

Gigi Proietti ai terremotati dell’Irpinia disse: “A me gli occhi, please!”

Gigi Proietti nel dicembre del 1980, a circa un mese dal terremoto dell’Irpinia del 23 novembre, andò in scena ad Avellino
Gigi Proietti

Gigi Proietti fu il primo a raccogliere l’appello che gli arrivò da Avellino in quel triste dicembre del 1980. La città e tutta la provincia piangeva i morti e la devastazione del terremoto del 23 novembre. Si cercava in tutti i modi di riprendere una quotidianità, spazzata via da quei terribili 90 secondi. Ad Avellino arrivò un tendone, donato dalla Regione Lombardia, e subito partì l’idea: facciamo il Teatro Tenda di Avellino. Erano gli anni in cui Gigi Proietti, con lo spettacolo “A me gli occhi, please!”, conquistava il pubblico nella storica struttura di piazza Mancini.

«Prima del terremoto – ricorda Armida Tino, assessore alla Cultura del comune di Avellino – con il gruppo “Musica Incontri”, guidato da Gaetano Vardaro, e Arci Musica di Avellino avevamo progettato la stagione teatrale con L’Ente Teatro Campania.

Il terremoto ci cambiò i piani e allora decidemmo di partire con il Teatro Tenda. Gigi Proietti fu il primo ad accettare con piacere di portare ad Avellino il suo spettacolo, come testimonia la foto dell’archivio di “avellinesi.it”, curato dal professor Franco Festa.

Dopo di lui vennero Vittorio Gassman, Luciana Savignano e Roberto De Simone che mise in scena la sua “Gatta Cenerentola”.

Tutti gli artisti si esibirono gratis: un vero e proprio atto di amore per la nostra terra».

E l’umanità di Gigi Proietti è rimasta nei ricordi e nel cuore di quanti, quarant’anni fa, hanno avuto la fortuna di assistere alla sua esibizione, che per una nevicata improvvisa fu spostata in uno dei teatri cittadini. Ieri sui social in tantissimi lo hanno testimoniato dando un loro personale ricordo di quella serata e del grande artista che contribuì per alcune ore a far dimenticare il dramma che si stava vivendo.

L’assessore Tino ricorda ancora: «Ero terrorizzata, avevo sfidato tutto e tutti con quello spettacolo e non sapevo come avrebbe reagito la città così duramente colpita. Gigi Proietti era nervoso ma sicuro di sé come sempre. Ci siamo salutati dietro le quinte io esitavo ad avanzare sul palcoscenico lui mi ha detto di fare presto. Quando si è aperto il sipario, ho visto la sala piena e la gente in silenzio che era lì, senza paura, senza mostrare nessun segno di inquietudine o fastidio. Al nome di Gigi Proietti scoppiò un grande applauso».

Fu una serata indimenticabile, Gigi Proietti diede, come sempre, il meglio di sé davanti a un pubblico speciale, facendo sentire tutto il suo sostegno a una città distrutta che quella sera con lui, su quel palcoscenico mostrò tutta la sua capacità di resistere e di voler reagire a quella tragedia.

Nel 2012 Proietti ritornò in Irpinia e fu tra i protagonisti del cartellone allestito dal Teatro Carlo Gesualdo, progettato dopo il terremoto dall’architetto Carlo Ajmonino, in pieno centro storico ad Avellino. Si esibì in “Pierino e il lupo”, accompagnato da 52 musicisti dell’orchestra sinfonica del Teatro “Carlo Gesualdo”, ai quali fece tantissimi complimenti. Anche quella volta tra gli avellinesi e il grande attore ci fu subito una grande empatia.

Un rapporto tra l’Irpinia e Gigi Proietti che parte da lontano.

Infatti era già stato ad Avellino, nel 1975 per ricevere il premio “Laceno d’Oro” come miglior attore e in quell’edizione fu premiato insieme con Alberto Lattuada, Rada Rassimov, Stefano Satta Flores e Michele Placido.

 

Gigi Proietti
Cultura 2 Nov 2020 07:25 CET

Affabulatore e trasformista: addio a Gigi Proietti

Voce di Roma e attore dai mille volti, Proietti è morto nel giorno del suo ottantesimo compleanno

Mattatore, trasformista, affabulatore. Tutto questo e molto di più era Gigi Proietti che nella sua sterminata carriera è stato attore di teatro, cinema e tv, cantante, doppiatore, conduttore e infine direttore artistico con l’ultima esperienza alla guida del Globe Theatre Silvano Toti di Roma. Ben 55 anni dei suoi 80 appena compiuti passati tra palcoscenici, set cinematografici e studi televisivi, Gigi Proietti , al secolo Luigi Proietti , era considerato da molti critici l’erede di Ettore Petrolini. Nato a Roma il 2 novembre del 1940, dopo la maturità classica si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università ‘La Sapienza’ per interrompere gli studi a soli sei esami dalla laurea.

Proietti aveva già esordito, a soli 14 anni, come comparsa nel film di Vittorio Duse del ’55 ‘Il nostro campione’. Poi interpreta un altro piccolo cameo diretto da Ettore Scola nel ’64 in ‘Se permettete parliamo di donne’. Nel ’66 debutta sul grande e sul piccolo schermo nel ruolo di un maresciallo dei carabinieri, per ironia della sorte trent’anni dopo interpreterà lo stesso personaggio con straordinario successo nella serie tv ‘Il maresciallo Rocca’. Il primo ruolo da protagonista al cinema glielo darà Tinto Brass nel ’68 nel suo film ‘L’urlo’.

Il primo vero successo per Proietti arriva però nel 1970 quando viene improvvisamente chiamato a sostituire Domenico Modugno, che aveva avuto un incidente, nella parte di Ademar nella commedia musicale di Garinei e Giovannini ‘Alleluja brava gente’. Nel 1967 sposa un’ex guida turistica svedese, Sagitta Alter, dalla quale ha due figlie: Susanna e Carlotta, anche loro attrici.

Gli anni ’70 sono fondamentali per la carriera di Proietti che, pur non avendo mai pensato al teatro e dopo essersi iscritto per caso al Centro Teatro Ateneo e avere studiato con personaggi del calibro di Arnoldo Foa’, Giulietta Masina e Giancarlo Sbragia, inizia i suoi famosi ‘One man show’. Proietti intuisce che deve affrontare il palcoscenico da solista per non restare ingabbiato nei ruoli da comprimario.

Nel ’76 incontra lo scrittore Roberto Lerici con il quale scrive e dirige i suoi spettacoli più celebri, da ‘A me gli occhi, please’ a ‘Come mi piace’ e ‘Leggero leggero’. Gli anni ’70 sono fondamentali anche per la carriera di Proietti  sul grande schermo: recita da protagonista in pellicole come ‘Gli ordini sono ordini’ , ‘Meo Patacca’, ‘Conviene far bene l’amore’, ‘Languidi baci, perfide carezze’ e ‘Casotto’, film del 1977 dove recita accanto a Ugo Tognazzi e una giovane Jodie Foster. In quegli anni è diretto anche da registi internazionali come Sidney Lumet, Robert Altman, Ted Kotcheff e Bertrand Tavernier. Il ruolo che però lo rende davvero ‘pop’ è quello di Bruno Fioretti detto Mandrake in ‘Febbre da cavallo’ di Steno, pellicola diventata ormai un vero ‘cult’.

Cinema, teatro ma anche radio dove Proietti ottiene un grande successo partecipando per due stagioni (1973-74 e 1975-76) alla trasmissione ‘Gran Varietà’ dove interpreta prima Avogadro il ladro e poi un irresistibile tombeur de femme a parole. Nel 1978 dà vita al suo Laboratorio di Esercitazioni Sceniche per giovani attori dopo avere assunto la direzione artistica del Teatro Brancaccio di Roma. Tra i suoi allievi ci sono nomi ormai diventati celebri nel mondo dello spettacolo, tra i quali Flavio Insinna, Massimo Wertmüller, Rodolfo Laganà, Chiara Noschese, Enrico Brignano, Giorgio Tirabassi, Francesca Reggiani e Gabriele Cirilli.

Oltre al teatro, al cinema e alla tv Proietti si cimenta con successo anche nel doppiaggio dando voce a Gatto Silvestro già nel 1964 e a diversi divi del grande schermo, da Robert De Niro a Charlton Heston, Richard Burton, Marlon Brando, Sylvester Stallone e Dustin Hoffman. Doppia anche i due draghi siamesi Devon e Cornelius nel film d’animazione ‘La spada magica – Alla ricerca di Camelot’, dove usa due toni di voce diversi. In tv è anche conduttore televisivo in Fantastico 4 del 1983 diretto da Enzo Trapani, ma anche regista televisivo nel 1990 della celebre sitcom ‘Villa Arzilla’, dove appare anche in brevi cameo nei panni del giardiniere. Dopo vari telefilm il successo arriva nel 1996 con la serie ‘Il maresciallo Rocca’ diretto da Giorgio Capitani, nella quale Proietti interpreta il ruolo di Giovanni Rocca, vedovo con tre figli, maresciallo comandante della stazione dei Carabinieri di Viterbo, che si innamora di una farmacista, interpretata da Stefania Sandrelli. Nel 2002 torna al cinema nel ruolo di Mandrake in un sequel di ‘Febbre da cavallo’ dal titolo ‘Febbre da cavallo – La mandrakata’, diretto dal figlio di Steno, Carlo Vanzina. Un “ritorno sul luogo del delitto”, come lo ha definito lo stesso Proietti , che però gli frutta un Nastro d’argento come miglior attore protagonista. Infinite sono le partecipazioni televisive dell’attore romano che nel frattempo, nel 2003, diventa direttore artistico del teatro scespiriano Silvano Toti Globe Theatre, nato a Villa Borghese a Roma da una sua idea.

Tra le ultime apparizioni televisive e cinematografiche ci sono quelle del 19 gennaio 2019 quando conduce in diretta su Rai1 l’evento inaugurale di Matera capitale europea della cultura 2019 alla presenza del presidente del consiglio Giuseppe Conte e del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Il 12 marzo dello stesso anno compare nella prima puntata di ‘Meraviglie – La penisola dei tesori’ condotto da Alberto Angela e a dicembre è al cinema con ‘Pinocchio’, il film di Matteo Garrone in cui interpreta Mangiafuoco. Da vero artista poliedrico, Proietti si cimenta anche nella scrittura e nel 2013 esordisce con un’autobiografia intitolata ‘Tutto sommato qualcosa mi ricordo. Tra ricordi e aneddoti’, pubblicata da Rizzoli. Alla fine del 2015 pubblica, ancora con Rizzoli, un nuovo libro dal titolo ‘Decamerino. Novelle dietro le quinte’: una raccolta di racconti, aneddoti e componimenti in versi de-camerino, ossia nati nel camerino, nel dietro le quinte del teatro.

Cultura Daniele Zaccaria 21 Oct 2020 20:27 CEST

La conquista della notte

La pandemia ci fa tornare indietro di secoli, quando la notte era un luogo disabitato, ostello del male e della sedizione, un coprifuoco permanente gestito dai papi e dai sovrani per controllare il popolo

Ci abbiamo messo più di mille anni per conquistare la notte. E non è stato un gioco. All’inizio l’abbiamo combattuta semplicemente dormendo, evitandola.

Un po’ come si evita la morte che del sonno è una parente stretta fin dall’antica Grecia con la sua mitologia che faceva di Ipnos e Thanatos due fratelli gemelli.

Poi l’abbiamo sfidata con i bagliori delle torce e delle candele che increspavano appena la sua trama fittissima, infine con le scoperte scientifiche, elettrificando le nostre città e i nostri villaggi. Una corsa spasmodica quella della luce, metafora fin troppo baciata della ragione e dell’intelletto che squarciano il velo dell’oscurità irrazionale trascinando il giorno oltre la sua frontiera naturale.

Per secoli e secoli è stata un luogo disabitato, un recesso di misteri e inquietudini, il teatro dell’anomalia e del male, animata da malfattori, adulteri e sediziosi, suggellata dai rintocchi sinistri delle campane e dai versi spettrali degli animali notturni.

Tutta la civiltà sprofondata nel sonno di un tempo sottratto alla percezione individuale come alla Storia, un limbo nero che segna il tempo sospeso tra il tramonto e l’alba. E all’interno del quale si agitano le rappresentazioni delle nostre più profonde paure.

Nell’iconografia cristiana Satana, l’avversario del genere umano non è casualmente identificato come il “principe delle tenebre”, la sua dimora, l’inferno dantesco, è il territorio della notte permanente, rischiarata dai lampi del fuoco riservato ai dannati. Sortilegi, malefici, stregonerie, tutto il catalogo del diavolo gonfia la grana disumana della notte che si popola di creature mostruose, che dà corpo al lato oscuro dell’immaginazione.

E, naturalmente, il suo è un tempo sacrilego, irrecuperabile, escluso dalla liturgia delle Ore canoniche, l’Ufficio divino riservato alla preghiera corale, da praticare “sette volte al di’”, ovvero dall’alba fino al momento di coricarsi. Certo esisteva anche la messa notturna, ma si tratta di una sfida quasi teatrale alle forze del male, un esorcismo collettivo tanto plateale quanto episodico. Un’eccezione.

Il potere  è stato da sempre l’arcigno custode della notte, straordinario mezzo per esercitare il controllo sui propri sudditi, «vietato uscire di casa dopo il vespro» veniva affisso nei rostri dei villaggi medievali dove le ronde solcavano le ore piccole gridando «è mezzanotte e tutto va bene!». Tutto va bene, ovvero nessuno circola per le strade.

Nel medioevo la manutenzione costante della notte permette di marcare una linea temporale distinta tra il lecito e l’illecito, protrarre la veglia nello spazio pubblico è un segno di malevola intelligenza con il demoniaco l’anticamera della cospirazione e della congiura.

Nel suo Histore de la nuit, lo storico Alain Cabantous ha spulciato migliaia di documenti, dagli archivi delle polizie a quelli dei tribunali mettendo in evidenza i terribili castighi che subivano i “profanatori”, coloro che violavano il coprifuoco fisiologico instaurato dalle autorità. Disobbedire al divieto, varcare il confine del giorno voleva dire attraversare il limite spazio- temporale della clandestinità un po’ come accade oggi con i migranti che cercano fortuna nel ricco Occidente.

Ma non è così per tutti: le magioni dei signorotti e poi gli sfarzosi palazzi dei monarchi di notte pulsano di vita, accolgono le grandi abbuffate e i chiassosi spettacoli che vanno avanti fino ai primi lucori dell’alba. La notte diventa così un privilegio esclusivo, mentre l’alta società gozzoviglia, canta e balla abbandonandosi alle gioie cortigiane, il popolo resta avvolto dai dalle spire del sonno, dal torpore di una vita indistinta, ai margini.

La differenza di classe non riguarda solo la possibilità di godere di beni materiali ma anche di disporre del proprio tempo in modo libero che la nobiltà estende solo per se stessa oltre il confine della luce solare, condannando tutti gli altri a un periodico letargo.

Alla fine del 18esimo secolo il processo inarrestabile di urbanizzazione e la rivoluzione borghese ribaltano il concetto stesso di notte che non è più lo speculare “rovescio del giorno”, ma un tempo autonomo da riempire come accade per le ore diurne; il cittadino moderno non occupa più abusivamente la notte ma le dà sostanza, la inonda di vita e di contrasti.

A Parigi il chiarore delle “lanterne oltre a rappresentare la forza sociale e intellettuale dell’Illuminismo è anche lo scenario dove avvengono i linciaggi di aristocratici e clericali, impiccati ai pali dei lampioni davanti folle esultanti.

Il potere delle lumières e i suoi edificanti precetti racchiudono paradossalmente l’opposto, non solo uguaglianza, libertà e fratellanza, ma anche vendetta, odio e rappresaglia, la luce è in tal senso uno strumento ambiguo, serve certo a scacciare via le tenebre ma anche a scovare i nemici nascosti nel buio. Le distopie totalitarie generano sistemi “dai mille occhi”, il controllo e la repressione del dissenso si consumano attraverso il “panottico”, la sorveglianza politica si spinge fino all’estremo invadendo ogni anfratto dell’esistenza individuale e la torcia che serve a squarciare la foschia è la stessa che rintraccia i dissidenti appartati nelle boscaglie, nel maquis.

Intanto le città diventano metropoli, la Seconda Rivoluzione industriale fa brillare le notti dei suoi abitanti, la società si apre e non può più trattenere i suoi membri nell’angusto perimetro diurno. Ora anche i poveri, il proletariato, si accaparrano del buio che d’improvviso contiene tutte le contraddizioni del giorno.

I bassifondi di Londra non si fermano mai, l’umanità malferma che perde la salute nelle fabbriche e nelle concerie al calar della sera si fionda nelle locande a rovinarsi la salute con ettolitri di pessimo alcool a rosicchiare la sorte nel gioco d’azzardo a intrecciare lame e coltelli, il crimine lievita nei suoi santuari antelucani.

È solamente nel ventesimo Secolo che la notte si svuota di ambiguità e simbologie oscure facendosi d’improvviso un’entità leggera, luogo che accoglie il fatuo loisir della borghesia gaudente, degli artisti contestatori, della gioventù sempre più consapevole di essere ormai un soggetto storico.

Cinema, bar, teatri, ristoranti, la vita sociale e culturale delle comunità ha ormai una profonda radice notturna, notti illuminate a giorno con gli scintillanti skyline delle grandi capitali visibili anche dai satelliti. Sembrava un processo irreversibile per il mondo democratico che mai più sarebbe ritornato a vivere nel tempo delle tenebre, sostenuto anche dalla frenesia di un capitalismo che ha l’horror vacui e che macina profitti h24.

Uno degli aspetti più inquietanti della pandemia di covid con i suoi coprifuoco a macchia di leopardo la sua rete di divieti e orari da rispettare è proprio questo violento riavvolgere il nastro della Storia, questo nuovo e inatteso sequestro della notte nel nome della salute pubblica.

Tutto molto ragionevole ma non per questo meno spaventoso. Sono bastati pochi mesi per sgretolare uno dei miti più persistenti del progresso e farci tornare indietro di oltre un secolo, Chiusi nelle nostre case, aspettando che la nottata prima o poi finisca.

 

Spettacoli Chiara Nicoletti 2 Aug 2020 19:45 CEST

«Adoro i Manetti Bros, sono bambini come me»

Claudia Gerini, 4 film in uscita tra cui l’attesissimo Diabolik: il celebre ladro sarà interpretato da Luca Marinelli.

Prima del lockdown aveva almeno quattro progetti in cantiere ed ora Claudia Gerini, ora si prepara a tornare in pista, anzi è già sul set del nuovo film di Edoardo Leo, Lasciarsi un giorno a Roma.

Rompe il ghiaccio con una riflessione sul periodo di isolamento che abbiamo vissuto: «Togliendo il dolore per la morte di 38.000 persone, ognuno nel quotidiano ha potuto riscoprire anche un po’ di sé, dei propri talenti, hobby lasciati indietro, ci sono persone più fortunate come me che hanno potuto anche riposarsi. Nella crisi comunque, ognuno ha poi l’occasione di reinventarsi, senza crisi non c’è evoluzione».

Tra i progetti più attesi dell’attrice, senza girarci intorno, c’è sicuramente Diabolik dei Manetti Bros, in sala il 31 dicembre: «Mi piace tantissimo lavorare con i Manetti, adoro il loro processo creativo sul set, è un piacere, una gioia e divertimento perchè hanno un approccio fanciullesco al lavoro, si stupiscono, gli piacciono le inquadrature, sembrano bambini. Dopo Ammore e Malavita,

ho pregato Marco e Antonio di farmi scrivere un episodio di Coliandro da Lucarelli, non volevo aspettare il prossimo film. Ne hanno scritto uno in cui sono una turca cattivissima esperta di arti marziali che mena tutti. È molto action perchè lo avevo chiesto così, volevo essere una sanguinaria».

Su Diabolik ( intrpretato da Luca Marinelli) è tutto top secret ma ci anticipa qualcosa: «È un fumetto che amo molto. Sono legata a Eva Kant da un video galeotto di anni fa di Amore Impossibile

( dei Tiromancino di Federico Zampaglione, suo ex compagno) dove la interpretavo. Si testa anche nella recitazione in altre lingue, l’avevamo vista recitare in inglese e presto sarà la volta del francese con Anna Rosenberg: «Ho girato il film in francese, è tratto dal libro Fiché coupable,

parla di un interrogatorio di una donna, una scrittrice che viene convocata dalla polizia e lei non sa perché: è un piccolo film indipendente film su un abuso di potere, si scoprirà che il commissario ce l’ha proprio con lei e racconta di come la polizia può sapere tutto di noi. Devo dire che mi sono trovata molto bene con il regista al suo esordio, Michel Moscatelli.

Come dicevamo è già sul set di Lasciarsi un giorno a Roma, diretta da Edoardo Leo: «Sono la moglie di Stefano Fresi, il film parla della difficoltà del lasciarsi, non di amori finiti ma che stanno finendo. E io interpreto il Sindaco di Roma».

Quasi un assist per una domanda sulla Capitale, così amata dall’attrice: «È un argomento che mi sta tanto a cuore, mi addolora che si dica che non si può fare niente, non si può mettere a posto, pulire, perché è una città “difficile”. Non è che Tokyo o Parigi siano città facilissime però. Questa città è magica nel mondo e non capisco come si permetta tutta questa incuria». Ma se diventasse veramente il Sindaco di Roma, che farebbe come prima cosa? «La pulirei e mi concentrerei sui trasporti, Roma soffre di sciatteria, è una bellissima donna che non si lava da trent’anni e non se lo merita. La sporcizia non è solo in periferia, è nei posti più belli dove vanno i turisti. Comunque non dò la colpa solo a chi amministra, ma a tutti quelli che contano».

La domanda nasce spontanea: perché non darsi alla politica con le idee così chiare? «Poi come fa il cinema senza di me? scherza la Gerini – io sono una donna pratica. Non potrei mai fare la politica. E poi tradirei il mio pubblico. Magari in un’altra vita».

Al cinema la vedremo prossimamente in Burraco: «Siamo quattro interpreti, io, Angela Finocchiaro, Caterina Guzzanti e Paola Minaccioni, una squadra di giocatrici di burraco in una commedia romantica. Sarà presentato al Bif& st di Bari e poi uscirà dopo la Mostra di Venezia». In fase di scrittura e creazione, c’è anche un programma in TV: «È dedicato alle donne italiane del passato, Franca Valeri, Sandra Mondaini, Delia Scala. Ci sto lavorando insieme a Michela Andreozzi, speriamo veda la luce». Musica, cinema, TV, manca solo la regia? Non lo esclude Claudia Gerini ma ha delle priorità: «Mi piace più produrre. Ho già delle idee. Mi piace anche scrivere. Ma non escludo che possa dirigere, continuando sempre a fare l’attrice. Fa parte di me questo mestiere. Rinasco ogni volta che sono un set».

 

Cultura Giulia Merlo 28 Jul 2020 16:18 CEST

Con Olivia de Havilland se ne va lo splendore della vecchia Hollywood

L’attrice scompare a 104 anni, memorabile il ruolo di Melania in “Via col vento”. La dolorosa “faida” con la sorella Joan Fontaine e la dura e vittoriosa lotta contro la Warner che all’epoca teneva gli attori “in ostaggio”

Con la scomparsa di Olivia de Havilland hanno finito di scorrere i titoli di coda dell’età d’oro di Hollywood.

L’attrice britannica naturalizzata statunitense, l’ultima ancora in vita del cast di Via col vento e la più longeva vincitrice di Oscar, è scomparsa serenamente nel sonno all’età di 104 anni, nel suo appartamento di Parigi. Per tutti, i suoi lineamenti sottili sono stati quelli di Melania, la più odiata brava ragazza della storia del cinema.

In un’intervista, de Havilland spiegò ciò che una spettatrice che veda Via col vento dopo l’adolescenza e ambisca a trarne un qualche insegnamento dovrebbe capire: è meglio essere una “Melania” che una “Rossella”.

Lei aveva desiderato quel ruolo quando tutte volevano quello di Rossella, tanto da litigare con la Warner Bros pur di interpretarla.

«Mi rispecchiavo in Rossella e nel suo essere una donna in carriera, che sapeva cosa voleva e ed era determinata ad ottenerlo. Ma desideravo avere la spiritualità e l’equilibrio di Melania. Ad attrarmi, del personaggio, è stato il fatto che fosse una persona felice», raccontò in un’intervista.

Melania, infatti, è l’unico personaggio a meritare un quasi lieto fine: amata da tutti per la sua pacatezza, ha avuto e ricambiato l’amore di Ashley, continuando a voler bene a Rossella anche se lei prova per tutta la vita a rubarle il marito, certo è l’unica dei protagonisti a morire, ma durante il secondo parto, dopo una vita tutto sommato felice e solo alla fine dei 238 minuti di film.

Come tutte le dive della Hollywood che fu, la vita di de Havilland potrebbe essere un romanzo di formazione.

Ebbe grandi successi, tutti nella prima parte della sua carriera: una prima nomination all’Oscar con Via col Vento nel 1940 e due statuette vinte per miglior attrice protagonista nel 1947 con A ognuno il suo destino e nel 1950 con L’ereditiera.

Ma anche grandi sconfitte, la più cocente delle quali legata a quella che fu la sua nemesi per tutta la vita: la sorella più piccola, Joan Fontaine, che prese come nome d’arte il cognome del patrigno. In un’intervista rilasciata alla rivista a People nel 1978, quando già le due non si parlavano più, Joan disse: «Sono stata la prima a sposarmi, la prima a vincere l’Oscar, la prima a diventare madre. Se morirò prima di lei la farò infuriare, perché l’avrò battuta anche in quello». Ci riuscì, morendo all’età di 96 anni nel 2013.

Le due, pur lavorando nello stesso ambiente ed essendo tutt’ora le uniche due sorelle ad aver vinto l’Oscar per miglior attrice protagonista, non andarono mai d’accordo e la faida nacque proprio nel 1942, quando si sfidarono per la statuetta dorata. Ad avere la meglio fu Fontaine con “Il sospetto” di Hitchcock e De Havilland vinse l’Oscar cinque anni dopo, ma le due non si fecero mai nemmeno i complimenti.

Dopo scontri e riconciliazioni durate trent’anni, le due smisero di parlarsi definitivamente nel 1975, quando litigarono per l’organizzazione del funerale della madre, che aveva sempre spinto la loro rivalità e preferiva Olivia a Joan, costringendo la più giovane a non firmare un contratto con la Warner perché era già la Mayor dell’altra.

Gli spettatori di tutto il mondo la ricorderanno per sempre come l’eterea Melania, ma a doverle molto sono soprattutto i suoi colleghi attori.

C’è una sentenza interpretativa del codice del lavoro della California, infatti, che ancora oggi è nota come “De Havilland law”. Olivia de Havilland è stata la prima attrice ad avere il coraggio di sfidare la Warner Bros e a vincere, con una pronuncia che entrò nei libri di giurisprudenza e incrinò la dittatura dei grandi studi cinematografici nei confronti.

Allora, infatti, gli attori venivano pagati con un contratto da dipendenti ed erano obbligati a recitare nelle pellicole scelte dai produttori, con il rischio di essere sospesi senza stipendio in caso di rifiuto.

I suoi scontri con la Mayor – alla quale era legata da un contratto di sette anni firmato quando lei era ancora sconosciuta – erano iniziati perché lei era stanca di recitare la parte stereotipata di interesse amoroso del bello di turno ( nel suo caso Errol Flynn: insieme recitarono in otto pellicole, la più nota delle quali è Le avventure di Robin Hood) e ambiva a parti più complesse.

De Havilland rifiutò vari film che le erano stati assegnati e la Warner la sospese per sei mesi. Alla fine del settimo anno lei credeva di essere finalmente libera, ma la Warner sostenne che i sette anni dovevano essere di lavoro effettivo e che quindi lei era ancora vincolata.

Fu così de Havilland fece causa alla Warner: nel 1943 la Suprema corte della California le diede ragione, stabilendo che la durata del contratto era di sette anni di calendario e la pronuncia fu un duro colpo per lo strapotere degli studios.

Lei non lavorò per due anni a causa dell’ostracismo dei produttori, ma si guadagnò il rispetto e la gratitudine di tanti colleghi che beneficiarono ampiamente della nuova giurisprudenza.

Addirittura la sorella Joan dovette ammettere: «Hollywood deve molto a Olivia».

Una Hollywood dorata che oggi, senza di lei, se n’è definitivamente andata con il vento.

 

Cultura Lori Zaccaria 11 Jul 2020 17:28 CEST

Le mascherine, il virus, George Floyd: una crisi che toglie il respiro

Lo spettro della pandemia e quello del razzismo. Perché il movimento Black Lives Matter è una risposta anche al mondo soffocante e distanziato del covid

Il volto mostra “tutti gli impulsi e gli stati d’animo” che albergano nella mente dell’uomo: gioia, dolore, disprezzo, paura, rabbia, stupore, amore, odio, disgusto e tanti altri ancora.

L’espressività rapida e mutevole del volto aiuta a comprendere l’Altro al di là della parola. All’inizio l’uomo non conosceva il linguaggio e l’espressività del suo volto svelava agli altri esseri umani i suoi stati d’animo.

La comprensione dell’Altro e la comunicazione si manifestavano attraverso l’espressione del volto. E’ così che socializzava l’essere umano, che si riconosceva e si riuniva in gruppi affini.Pensate a quando vi avvicinate ad un Bimbo in fasce. Cosa accade?

Se coglie sul vostro volto benevolenza e affetto, il Bimbo può rispondere subito con un sorrisetto. E noi subito ci affrettiamo a dire: “Come sei simpatico!”. In realtà è il bimbo che ha colto sul nostro volto la simpatia che lui stesso ci ha ispirato, si è cioè generata l’empatia, quel mettersi l’uno nei panni dell’altro. Ma se il Bimbo coglie sentimenti diversi, può scoppiare in un pianto dirotto.

Il Bimbo non conosce ancora il linguaggio, non ha ancora sperimentato la parola, ma sa riconoscere e interpretare la mimica che esprime un volto, ed anche – ovviamente non meno importante – l’intonazione della voce.Ma oggi come sta cambiando la comunicazione, visto che il nostro volto è coperto in parte da una mascherina? Il Bimbo di cui sopra sarà sempre in grado di comprendere e cogliere “i mille accenni di metamorfosi” del nostro volto? O scoppierà subito a piangere?

Se poi penso ai bambini che a settembre torneranno a scuola e dovranno usare la mascherina in classe, così come gli insegnanti, quale sarà la capacità di comprensione degli stati d’animo tra loro? Come verrà influenzata la socializzazione, uno dei capisaldi per la crescita degli individui?

All’interno di un dialogo mi è capitato di sorridere. Allora tra me e me mi sono chiesta: “Visto che la mascherina mi copre la bocca, ed è proprio da un cenno della bocca che nasce il sorriso, gli occhi sono riusciti a comunicare quel sorriso al mio interlocutore?”

Nel mondo digitalizzato di oggi si usano gli emoticon (emozione-icona), vale a dire l’espressione delle faccine. Vi sarà sicuramente successo di inviare un messaggio e di ricevere come risposta una faccina sorridente, stupita o piangente, o un cuoricino, o un simbolo buffo, o un animaletto, o comunque un’icona divertente.

La comunicazione virtuale cerca di imitare e riprodurre la nostra mimica facciale, i nostri stati d’animo. La comunicazione non più verbale, non più scritta attraverso parole e frasi che articolano le nostre emozioni, ma espressioni, mimiche facciali sinteticamente accennate dalle faccine.Ma quella delle faccine è una comunicazione che ci soddisfa appieno?

O per essere appagante la relazione umana ha bisogno della presenza fisica e quindi anche verbale? Quel modo particolare di comunicare cioè, che stabilisce una relazione, un legame diretto con l’Altro?Chi è quello che noi chiamiamo un grande attore?

E’ colui, o colei, che – al di là del personaggio che interpreta, o del ruolo che svolge – con la sua gestualità, ma soprattutto con la mimica facciale e il modulare della voce, riesce a dare vita al personaggio, a risucchiarci nelle innumerevoli metamorfosi che quello attraversa durante lo svolgimento della storia. Insomma, il grande attore, ci fa entrare in empatia con lui e dunque col personaggio, con i suoi stati d’animo, con i suoi slanci: ce lo fa amare o odiare.

Per fare un esempio, pensate un po’ che ricchezza infinita di espressioni riesce a generare con la sua faccia la grandissima Meryl Streep.

Nessun movimento è superfluo, fine a se stesso, tutto il muoversi del suo viso magico è finalizzato a creare il personaggio, ad ammaliare lo spettatore.Dall’Olimpo del cinema torniamo alla vita di tutti i giorni, all’importanza della mimica facciale e della tonalità della voce per stabilire rapporti umani, al di là del significato della parola e del linguaggio.

Vi sarà capitato di entrare in contatto con persone che parlavano una lingua diversa dalla vostra. Una lingua a voi del tutto sconosciuta. Nel momento in cui però ci si guarda negli occhi a viso scoperto e si ode il tono della voce, riusciamo a comprenderci, ad emozionarci ed anche a spaventarci. Mi capitò su un treno in Tunisia tanti anni fa. Ebbi una lunga conversazione con una giovane donna con una bimba piccolissima e bella, che parlava un dialetto incomprensibile, e nemmeno una parola di francese. Un incontro tenero, vitale e intima, nonostante la barriera linguistica, come capita tra donne.

Certe volte lo scambio di idee fatto con indosso la mascherina ci fa perdere anche le tonalità delle parole, visto che il respiro si puo’ fare corto. Non vorrei però che questo mio insistere sull’importanza delle espressioni facciali per comunicare, possa indurre a pensare che sto suggerendo di abolire l’uso della mascherina in questo momento tragico che stiamo vivendo. Niente affatto.

Questo manufatto – insieme ad altri accorgimenti, come il distanziamento – ci ha salvati, e continua a salvarci, dal pericolo di contagiarci. Tra l’altro, si sta sviluppando un modo di comunicare anche attraverso questo nuovo capo che ci troviamo ad indossare.

Infatti, le mascherine si stanno personalizzando. C’è chi le indossa a fiori, chi colorate, chi nere, chi con disegni divertenti, chi con il tricolore o con lo stivale dell’Italia. Alcune donne le accoppiano al colore delle loro mise. E queste mascherine veicolano messaggi.

Pensate all’ostentazione del triumvirato del centro destra che indossa mascherine con il tricolore come segno di riconoscimento. Mentre spesso i personaggi governativi indossano una mascherina con la carta geografica dell’Italia.

Da non dimenticare quelle – bellissime – con i colori delle squadre di calcio più importanti. Insomma quest’oggetto che limita un po’ la nostra libertà, ma che ci salva la vita, sta rapidamente trasformandosi in un accessorio che denota l’appartenenza ad un gruppo sociale.

Una comunicazione fatta attraverso simboli.Un po’ come quando, in adolescenza si indossano magliette con i propri idoli: cantanti, personaggi famosi, cartoon, o si appendono posters al muro che raffigurano i nostri beniamini. Messaggi, simboli che raffigurano e rappresentano le nostre appartenenze o i nostri desiderata. Quindi, le mascherine veicolano messaggi e simboli senza più l’uso della parola.

Sono messaggi e simboli taciti. Si potrebbe dire che nascondano misteri. Visto che le innumerevoli metamorfosi del volto ci vengono negate.

Misteri che forse ci separano gli uni dagli altri. Le mascherine si stanno trasformando da prodotti medicali in maschere. Le maschere sono sempre servite all’uomo per mostrare l’appartenenza ad un determinato gruppo o etnia.

Ma le maschere costruiscono anche barriere, confini, muri. Io diverso da te, ma uguale al mio gruppo di appartenenza. La pandemia ed internet stanno modificando il nostro modo di comunicare. La comunicazione si fa distante.

La relazione si fa distante, introducendo subdolamente il sospetto e il mistero per ciò che non si può conoscere appieno Forse dobbiamo chiederci se questa trasformazione nell’uso della mascherina, da prodotto medicale che ci difende dall’ipotesi di contagio, in un accessorio di abbigliamento, non sia un modo di negare e rimuovere il dolore e la paura che stiamo vivendo.

Volendo essere più ottimisti, possiamo ipotizzare che in realtà tutte queste mascherine piene di simboli e di colori sono una forma di accettazione più a cuor leggero di tutto ciò che stiamo affrontando.  Vorrei fare una riflessione rispetto ai contatti fisici.

Ci siamo rinchiusi nelle nostre case per mesi, distanziandoci gli uni dagli altri, isolandoci dall’affetto di congiunti e amici.

Lo abbiamo fatto per evitare l’aggressione di questo virus invisibile e spietato. Allora la domanda è: come mai proprio adesso c’è questo profluvio di manifestazioni di tutti i tipi, nonostante il virus non sia stato ancora addomesticato?

Da cosa nasce questa necessità di aggregarsi? Elias Canetti nel suo libro “Massa e Potere” scrive: “Solo nella massa l’uomo può essere liberato dal timore di essere toccato. Essa è l’unica situazione in cui tale timore si capovolge nel suo opposto.” 

Dunque, se accettiamo il presupposto autorevole di Canetti, nel momento in cui ci confondiamo nella massa, quando ci si trova corpo a corpo, l’uno addosso all’altro, proprio allora, con l’assenza di distanza, si esorcizza il timore di toccarci. E la paura, accumulata nella totale solitudine e nella mancanza di socializzazione, svanisce.

Ma con grande facilità, e con un profondo senso di rabbia, diamo degli irresponsabili o degli sciagurati, ai giovani che si addensano nella movida o che festeggiano una vittoria calcistica. Però, in maniera conformista e un po’ ipocrita, non diamo degli irresponsabili a coloro che “più che giustamente” manifestano in America e nel mondo per i problemi razziali.

Il dramma degli abusi da parte della polizia sugli Afroamericani, non è qualcosa che avviene oggi per la prima volta, potremmo anzi dire che è una strage che dura da sempre. Sono migliaia e migliaia i George Floyd morti per mano della polizia. Stella Jean nella manifestazione “black lives matter” svoltasi a Piazza del Popolo a Roma, urlava: “Dove erano prima gli indignati di oggi, quando a sette anni già subivo insulti per il colore della mia pelle?”

Allora, ci chiediamo, perché proprio ora, la morte del George Floyd di turno ha fatto da detonatore? Facendo scattare questa necessità planetaria di dimostrare contro abusi razziali atavici? Come non pensare che la necessità di protestare in questo momento difficile per tutto il genere umano, sia stata innescata dalla esigenza di esorcizzare la paura del contagio del virus?

Dunque, proprio perché ci sentiamo più al sicuro nei contatti che avvengono nella massa, quell’assenza di distanza, quella vicinanza, quel corpo a corpo, ci tranquillizzano. Strano ma vero. George Floyd urlava; “I can’t breath”, “Non posso respirare”.

La folla ripete:  “I can’t breath”,”Non posso respirare”. Certo non per un ginocchio sul collo che impedisce il respiro, e per tutti gli abusi subiti dalla gente di colore nel corso dei secoli, ma – forse soprattutto – per la paura che oggi incute quella invisibile pallina colorata che ci impedisce di respirare. Appunto, una paura che toglie il respiro.

Intervista Valentina Stella 11 Jul 2020 11:28 CEST

«La prigione di Nisida e quella speranza di una nuova vita per le mie due donne»

Intervista a Valeria Parrella, finalista del Premio Strega con “Almarina”

 

“Almarina” è il nuovo romanzo di Valeria Parrella, finalista del premio Strega, ha ottenuto il voto dello Strega OFF 2020, assegnato al libro più votato dal pubblico e da una selezione di riviste letterarie. Il romanzo della scrittrice napoletana narra l’incontro nel carcere minorile di Nisida fra Elisabetta, insegnante di matematica cinquantenne che ha perso da poco il marito, e Almarina, una ragazza romena di sedici anni in carcere per aver rubato un telefonino e con alle spalle una storia di violenza familiare. Fra le due donne nasce un legame che non può essere spezzato, soprattutto quando si affaccia per entrambe la speranza di poter ricominciare una nuova vita.

Da dove nasce la scelta di scrivere un romanzo sull’istituto di pena di Nisida?

L’idea mi è venuta da un laboratorio di scrittura creativa che ho condotto per 4 anni a Nisida, invitata da Maria Franco. All’inizio non volevo accettare perché entravo spesso nelle carceri ma in quelle per adulti: credevo di non riuscire a sopportare la visione dei ragazzi detenuti. Poi Maria Franco, a cui non si può dire di no, mi ha convinta dicendomi “gli altri scrittori entrano, devi farlo anche tu”. Nel libro ritroviamo Maria Franco, figura potente nella realtà e nella finzione, nel personaggio di Aurora che racchiude anche me e l’insegnante di mio figlio delle elementari. Alla fine dei 4 anni di laboratorio ho chiesto ai ragazzi di scrivere qualcosa sul loro passato che fosse felice e una lettera di un ragazzo mi ha colpita particolarmente e che ritroviamo nel libro: un bambino che a 13 anni fuori dalla casa famiglia va incontro ad una donna pensando che fosse sua vera madre, ma era un’altra donna. Quando a casa lo lessi, ero così affranta che pensai che avrei dovuto scrivere un romanzo.

Lei scrive “tu guardia carceraria hai scelto la repressione”. Vuole spiegare meglio questa associazione, apparentemente netta, tra guardia e repressione?

Questo lo dice Elisabetta Maiorano che taglia la realtà con l’accetta, divide i buoni dai cattivi, i professori da un lato le guardie carcerarie dall’altro. Quello che deve imparare a fare è centrifugare le posizioni e realizzare una nuova visione. Quindi questa espressione appartiene alla visione molto parziale di Elisabetta Maiorano. Non rispecchia invece il mio pensiero.

‘ Sono ancora così piccoli e torneranno da dove sono venuti’ ossia in quei luoghi che li hanno condotti a Nisida. Secondo lei è difficile il recupero dei ragazzi figli della camorra?

Non sono né una esperta di camorra, né una pedagogista. Sono una scrittrice. Quello che ho notato è che è sempre difficile il reinserimento nella società di un detenuto. I ragazzini sono agevolati per una questione anagrafica perché hanno tanta vita davanti. Chiaramente quello che mi viene da pensare è che se il quartiere dove ritorni dopo essere stato a Nisida non ti offre nulla, dove i servizi non funzionano e la camorra comanda è difficile che questi ragazzi possano venirne fuori. Abbiamo una bella Carta costituzionale ma se mancano i raccordi tra gli attori in gioco è difficile far funzionare le cose.

“Come può sorridere il direttore di un carcere minorile?”: secondo Lei questi istituti andrebbero superati con qualcosa di diverso?

E’ sempre Elisabetta Maiorano a parlare: è una sciocchezza, io posso avere dei drammi tremendi e sorridere, oppure avere una bellissima villa a Posillipo, un buono lavoro, figli sani ed essere depresso. Quando scrive della comunità di Don Valentino, dice “è a Pozzuoli… la gente ignara passa lì accanto”. Vuole rappresentare l’indifferenza della società civile nei confronti di queste realtà?

No, non credo. Penso invece che la società, soprattutto quella napoletana, sia molto attenta e accogliente. Delle volte qualcuno non vuol far sapere i propri fatti e si vengono a sapere lo stesso, non vuole parlare con il tassista ma alla fine è lì a chiacchierarci. Credo che la realtà del sud Italia sia estremamente attenta all’altro. Quando parlo di Napoli parlò dell’Italia. Napoli è solo un punto di vista. Non è un mondo a sé, semplicemente un posto dove si vedono le cose. Forse se ne vedono di più contemporaneamente perché è un micro mondo, una città particolare ma non così particolare da essere diversa dal resto dell’Italia. Credo che l’Italia abbia un problema rispetto all’attenzione verso gli individui fragili. Si tratta di una questione governativa, non della società. Il punto è molto più personale rispetto a questa frase di Pozzuoli: se io passo perché sto andando dal notaio oppure sto andando a prendere la macchina al porto, non so nulla della persona che ho accanto. Semplicemente è un punto di vista individuale. Quando scrivo un libro non mi prefiggo nessun assunto morale: mi interessa invece comporre immagini e creare dialoghi che siano più o meno rispondenti all’orecchio che metto a terra nel sentire le persone come parlano.

Napoli che città è oggi?

È una citta che è uscita da Covid, come tutto il resto del mondo. Fa i conti con tanti posti di lavoro persi, con le scuole chiuse, con il fatto che per strada non ci sono turisti e non ci sono studenti. È una città ferita che credo si riprenderà a Natale. Ho fiducia nel Natale a Napoli.

Nel libro ci sono diversi riferimenti a Gramsci. Come mai?

È un padre politico per me: io sono comunista. È anche un padre letterario: quando qualcuno scrive di un argomento dovrebbe leggere prima tutto quello che è stato già scritto. “Lettere dal carcere” di Gramsci è una lettura imprescindibile.

 

Cultura 3 Jul 2020 09:37 CEST

Premio Strega, la seconda volta di Sandro Veronesi

Duecento voti per l’autore del romanzo “Il colibrì” (La nave di Teseo). Al secondo posto, staccato di 68 voti, Gianrico Carofiglio

Bis di Sandro Veronesi al Premio Strega, che vince con 200 voti, piazzandosi davanti a Gianrico Carofiglio, con il romanzo “Il colibrì” (La nave di Teseo). «Sto pensando alla mia famiglia, ai miei figli, a mia moglie, ai miei fratelli. Sto pensando al mio editore, a Elisabetta Sgarbi, a Umberto Eco che è stato così generoso da fondarla questa casa editrice. Sto pensando agli amici che mi hanno sostenuto, che hanno votato il libro. Sto pensando all’uomo nuovo, che poi è una donna. A tutte le persone nuove che ci sono e a tutte le navi in mare» ha detto Veronesi, già vincitore del Premio nel 2006 con “Caos Calmo”, diventato un film di Antonello Grimaldi con Nanni Moretti.

Veronesi ha voluto dedicare la vittoria a tutte queste cose, in questa edizione memorabile dello Strega, con in corsa una sestina e due titoli Einaudi ex aequo, al Museo Etrusco di Villa Giulia semi deserto, senza il grande pubblico degli anni scorsi. Una ottantina le persone sedute ai tavoli, in una serata bollente che ha visto il ritorno del tavolo della giuria e della mitica lavagna dove si segnano i voti sulla balconata del Ninfeo, come nelle dieci edizioni a partire dal 1953. Di vincere lo Strega due volte era successo finora solo a Paolo Volponi, nel 1965 con “La macchina mondiale” e nel 1991 con “La strada per Roma”.

«Solo l’amare, solo il conoscere conta, non l’aver amato, non l’aver conosciuto. La gente cambia, le persone cambiano. C’è un paesaggio diverso, nativi digitali che adesso leggono, che hanno un atteggiamento diverso e questo uno lo percepisce anche se qua dentro sembra che il tempo si sia fermato. Non mi ricordo nulla della prima volta, lo leggo sui libri che c’è stata una vittoria» ha sottolineato Veronesi della sua seconda vittoria.

È la storia di una vita intera, quella di Marco Carrera, il protagonista del romanzo di Veronesi, colpita un po’ più del normale da cose dolorose. Il colibrì scende in modo potente alla radici di quell’energia che annienta e fa rinascere. Ci racconta andando avanti e indietro nel tempo la perdita e l’amore, il destino e le scelte , la ricerca di se stessi, la psicoanalisi, i sogni, i simboli con tante suggestioni e citazioni letterarie. Al centro ci sono la famiglia, con tutte le sue mitologie.

Nessuna battaglia con Gianrico Carofiglio, come si pronosticava alla vigilia, che per “La misura del tempo” (Einaudi) in cui troviamo un Guido Guerrieri diverso in un dramma giudiziario e in un romanzo di formazione, ha avuto 132 voti, ed è andato subito a stringere la mano a Veronesi abbracciato da Elisabetta Sgarbi, dalla moglie e da tutti gli amici, tra cui Dori Ghezzi, seduta al tavolo de “La nave di Teseo”.

Un abbraccio anche con Jonthan Bazzi, citato nel libro di Veronesi, all’ultimo posto della sestina formata con il suo ripescaggio, con 50 voti. E al terzo posto un altro titolo Einaudi, “Almarina”, 86 voti, di Valeria Parrella, unica donna nella finale di questa edizione, con la storia dell’incontro tra Elisabetta Maiorano, professoressa di matematica nel carcere minorile di Nisida, vedova senza figli e la sua alunna Almarina, giovane ragazza romena stuprata. E l’ex numero uno di Mondadori Gian Arturo Ferrari è al quarto posto con “Ragazzo italiano”, 70 voti, il suo libro d’esordio a 76 anni, in cui mescola vicende reali e inventate in un romanzo di formazione di matrice autobiografica. E al quinto Daniele Mencarelli, con 67 voti, già felice del Premio Strega Giovani 2020, per ‘Tutto chiede salvezza” (Mondadori).

Ai tavoli del giardino, anche l’assessore alla Cultura e vicesindaco di Roma Luca Bergamo. A presiedere il seggio Antonio Scurati, vincitore del Premio Strega 2020. Su 660 votanti hanno espresso le loro preferenze in 605. «Fa un bell’effetto perché un mese fa non ci saremmo aspettai di fare un evento così. Mi da l’idea di un nuovo inizio con magari più consapevolezza» dice Carofiglio. «Qui si sente che è passata la pandemia ed è giusto si senta perché abbiamo sofferto» sottolinea la Parrella. «Mi sembra più umano. Era davvero una bolgia. Le persone adesso si parlano , niente spintonate. È paradossale vedersi mascherati. C’è una calma strana» commenta la Sgarbi. «Sono più abituato alle cose vuote, da tre mesi. Non mi fa tanta impressione» sottolinea Veronesi.

 

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