Non c’è miglior mastice di un pericolo esterno. E adesso il pericolo esterno, agli occhi di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, è per l’appunto rappresentato da Giuseppe Conte. Un intruso che loro hanno rivestito dei panni di presidente del Consiglio. Un Carneade al quale, sia pure per finta, hanno attribuito la somma del comando. Un ingrato. Perché, a torto o a ragione, sospettano che voglia mettersi in proprio. E poi dà l’impressione di vivacchiare alla bell’e meglio grazie all’appoggio del Capo dello Stato. Conte, chi era costui? La reincarnazione del divo Giulio che sa congelare la crisi

Per di più, ma guardate un po’, seguendone i consigli. Quasi che l’inquilino del Quirinale non fosse quel magistrato di persuasione e d’influenza illustrato da Meuccio Ruini nella sua relazione al progetto di Costituzione presentato alla presidenza dell’Assemblea costituente nel febbraio del 1947. Tutt’altro che un personaggio evanescente come quello di altri ordinamenti, a cominciare dalla Terza Repubblica francese.

Così, dopo essersele dette di tutti i colori, Salvini e Di Maio hanno siglato, se non la pace, almeno un armistizio. Per muovere assieme guerra all’inquilino di Palazzo Chigi. Già, ma chi è veramente costui? A che gioco sta giocando? Che cosa vorrà fare da grande? Loro se lo domandano di continuo. Sbalzarlo di sella non sarà facile. Per licenziarlo dovrebbero provocare una crisi di governo. Una sorta di muoia Sansone con tutti i filistei. Ma come l’araba fenice il Sansone pugliese potrebbe risorgere dalle sue ceneri. Presentatosi alle Camere per parlamentarizzare la crisi ministeriale, deputati e senatori potrebbero riconfermargli la fiducia pur di evitare il pericolo di uno scioglimento anticipato dei due rami del Parlamento. Altrimenti gran parte dei rappresentanti ( si fa per dire) del popolo non sarebbero riconfermati e dovrebbero trovarsi un lavoro per tirare a campare. Ma anche se la crisi si aprisse in Parlamento, non è escluso che Conte possa ottenere un reincarico. Magari in vista di una maggioranza alternativa a quella attuale. Non a caso la nostra è la patria del trasfor-mismo.

Comunque sia, Conte non va sottovalutato. Nella sua informativa al Senato di mercoledì scorso il presidente del Consiglio, nel suo piccolo, sembrava il divo Giulio. Ma sì, Andreotti in persona. Rispettoso delle prerogative parlamentari, Conte, tanto per rimarcare le sgrammaticature costituzionali altrui. E gocce di arsenico dispensate a profusione ai cari colleghi. Con una faccia da impunito. Ha detto: “ho sempre cercato di protrarre la mia presenza, al fine di poter ascoltare anche le vostre repliche”. Un Andreotti spiccicato.

Sette volte presidente del Consiglio, aveva un’invidiabile vescica di ferro. Come quella di Giorgio Almirante, a detta di Giovanni Malagodi. Dai banchi del Msi parlò nel 1969 per quasi nove ore di fila in occasione dell’ostruzionismo sulla legge elettorale regionale. Dal banco del governo prendeva appunti di continuo, il divo Giulio, e rispondeva a tutti gli oratori intervenuti nel dibattito fiduciario. Largendo zucchero a piene mani. Solo una volta cercò di guadagnare anzitempo l’uscita. E fu redarguito da Mario Capanna, perché avvertiva il prepotente bisogno di allontanarsi proprio mentre parlava un esponente dell’opposizione. Ormai sull’uscio, come Winston Churchill alzò a forma di V l’indice e il medio della mano destra. E con un filo di voce esclamò: “Onorevole Capanna, ci sono delle funzioni non delegabili”. Anche le vesciche di ferro a volte vanno in tilt.

E poi quella promessa, una minaccia per i diarchi, di tornare in Parlamento “ove mai dovessero maturare le condizioni per una cessazione anticipata del mio incarico”. Quell’auspicio di più corretti rapporti tra Camere e governo. Segno che non tutti la pensano come lui. Quel signor Savoini al seguito del ministro dell’Interno pur non facendo parte – ahi ahi – del potere esecutivo. Quella sottolineatura degli incontri di carattere privato di Salvini e i suoi cari successivi all’evento organizzato a Mosca da Confindustria Russia. Informazioni, queste, non ricevute dal “ministro competente”. Cioè dall’innominato Salvini. Ma allora da chi, di grazia?

Ancora. Quell’assicurazione che “allo stato non vi sono elementi tali che possano incrinare la fiducia che nutro in tutti i componenti del Governo”. Perciò, allo stato, fiducia confermata – bontà sua – anche a Salvini.

Ma facendogliela pesare. Dulcis in fundo, quell’invito ai ministri di vigilare che negli incontri governativi a livello bilaterale partecipino solo persone accreditate ufficialmente, tenute al vincolo della riservatezza. Altrimenti la sicurezza nazionale, è il sottinteso, potrebbe essere a rischio. Un botto finale niente male.

Insomma, Conte ha usato il pugno di ferro in un guanto di velluto. Com’era nello stile del luciferino Andreotti. Convinto, al pari di Bettino Craxi, che prima o poi le vecchie volpi finiscono in pellicceria. E ognuno dei due, si capisce, pensava all’altro.