“Il profeta non è uomo della certezza. Il dubbio è il suo pane quotidiano. L’assenza di dubbi è il primo segnale che svela la falsa profezia”. Per il nostro giornale recensire un libro che contiene questa frase è poco meno che un dovere.
Si tratta de L’alba della mezzanotte,
Il grido inascoltato del profeta Geremia di Luigino Bruni, edito da Edb. Come primo interesse, Bruni è un economista e infatti insegna Economia politica. Proprio l’economia gli si è rivelata nella sua natura sorgiva, nella sua figliolanza diretta dalla morale, materia dalla quale si è separata a Cambridge nell’Ottocento, salvo qualche sporadica apparizione in precedenza, sotto vesti incerte, fra Napoli e la Prussia.
L’economia politica è imparentata con quella domestica nella finalità di utilizzare nel modo migliore le risorse di una comunità così da contribuire al benessere di tutti, anche se alcuni credono lo scopo sia scoprire leggi feroci da imporre con determinazione assoluta sotto l’usbergo della scientificità.
Se l’economia lascia il ruolo di puntello dell’organizzazione sociale esistente e si sforza di interpretare quello di esploratore di possibilità concrete di miglior utilizzo dei beni comuni, nascono testi intitolati La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane ( Il Margine, Trento, 2007), Ricchezze. Beati quelli che investiranno in economie di comunione,
( San Paolo, Milano, 2014) o Gli imperi di sabbia. Logiche del mercato e beatitudini evangeliche ( Edb, 2016). Da lì a occuparsi direttamente di sacre scritture il passo è breve, soprattutto se il direttore dell’Avvenire ti stimola a farlo. Gli articoli nascono già come parti di riflessioni organiche che poi diventano volumi, dopo Giobbe, Qoelet e Isaia è adesso la volta di Geremia, profeta meno conosciuto ma di assoluta modernità.
Il testo con il quale Bruni si confronta è citato spesso per le lamentazioni del profeta sul futuro del popolo ebraico, destinato all’esilio babilonese, e per il pianto che le accompagna. Geremia è inascoltato e consapevole che niente può cambiare questa sua condizione, ma continua a svolgere il compito che gli è stato affidato da Dio perché c’è sempre un resto che si salva, sopravvive e porta avanti il progetto per cui esiste. Niente di ciò che esiste va sprecato. Fra i temi approfonditi con maggior attenzione dall’autore c’è l’idolatria, considerato il grande problema dell’uomo, ciò che lo mette in ogni momento a rischio di smarrire l’obbiettivo al quale tendere, di perdersi in una ricorsività che lo spinge verso il nulla. Persino Dio o Gesù Cristo corrono il pericolo di essere trasformati in idoli quando l’uomo smette di riconoscerne l’alterità, e quindi la necessità di creare un rapporto con una realtà vivente, e li costringe in un ruolo passivo, di specchio nel quale autorappresentarsi, puri nomi. Idoli, appunto.
Grande spazio è dedicato alla profezia in sé, alla domanda sulla natura della profezia e sulla necessità della sua presenza per il progresso dell’uomo. Secondo Bruni il profeta non è colui che prevede il futuro, l’indovino, ma è chi riconosce appieno la propria vocazione di ascoltare ed esprimere la parola di Dio, chi ha la capacità di distinguere le voci dentro di sé, comprendendo qual è la propria e quale quella divina.
Per questo il dubbio costituisce una costante della sua vita: come si fa a essere sicuri di riconoscere la parola di Dio, di non inventarla, di non essere pazzo? Nella chiusura del libro, con un ribaltamento sorprendente Bruni comprende anche sé stesso e i lettori in questa dimensione di insicurezza “nessuno ci può garantire che Geremia e tutti gli altri profeti biblici non fossero soltanto degli auto ingannati come tutti gli altri falsi profeti, nevrotici convinti di ascoltare voci che non c’erano”.
Gli strumenti di cui l’uomo e la donna dispongono per uscire dal labirinto dell’incertezza e dello smarrimento sono la fede e – come ha sostenuto Hans Urs von Balthasar e viene ormai condiviso da molti – la capacità di percepire la bellezza, di riconoscere una vibrazione particolare presente nei testi sacri e nella tradizione della Chiesa che ci conferma nel loro alto spessore umano. E divino.
Il dubbio è il nostro pane quotidiano
“Il profeta non è uomo della certezza. Il dubbio è il suo pane quotidiano. L’assenza di dubbi è il primo segnale che svela la falsa profezia”. Per il nostro giornale recensire un libro che contiene questa frase è poco meno che un dovere.
Si tratta de L’alba della mezzanotte,
Il grido inascoltato del profeta Geremia di Luigino Bruni, edito da Edb. Come primo interesse, Bruni è un economista e infatti insegna Economia politica. Proprio l’economia gli si è rivelata nella sua natura sorgiva, nella sua figliolanza diretta dalla morale, materia dalla quale si è separata a Cambridge nell’Ottocento, salvo qualche sporadica apparizione in precedenza, sotto vesti incerte, fra Napoli e la Prussia.
L’economia politica è imparentata con quella domestica nella finalità di utilizzare nel modo migliore le risorse di una comunità così da contribuire al benessere di tutti, anche se alcuni credono lo scopo sia scoprire leggi feroci da imporre con determinazione assoluta sotto l’usbergo della scientificità.
Se l’economia lascia il ruolo di puntello dell’organizzazione sociale esistente e si sforza di interpretare quello di esploratore di possibilità concrete di miglior utilizzo dei beni comuni, nascono testi intitolati La ferita dell’altro. Economia e relazioni umane ( Il Margine, Trento, 2007), Ricchezze. Beati quelli che investiranno in economie di comunione,
( San Paolo, Milano, 2014) o Gli imperi di sabbia. Logiche del mercato e beatitudini evangeliche ( Edb, 2016). Da lì a occuparsi direttamente di sacre scritture il passo è breve, soprattutto se il direttore dell’Avvenire ti stimola a farlo. Gli articoli nascono già come parti di riflessioni organiche che poi diventano volumi, dopo Giobbe, Qoelet e Isaia è adesso la volta di Geremia, profeta meno conosciuto ma di assoluta modernità.
Il testo con il quale Bruni si confronta è citato spesso per le lamentazioni del profeta sul futuro del popolo ebraico, destinato all’esilio babilonese, e per il pianto che le accompagna. Geremia è inascoltato e consapevole che niente può cambiare questa sua condizione, ma continua a svolgere il compito che gli è stato affidato da Dio perché c’è sempre un resto che si salva, sopravvive e porta avanti il progetto per cui esiste. Niente di ciò che esiste va sprecato. Fra i temi approfonditi con maggior attenzione dall’autore c’è l’idolatria, considerato il grande problema dell’uomo, ciò che lo mette in ogni momento a rischio di smarrire l’obbiettivo al quale tendere, di perdersi in una ricorsività che lo spinge verso il nulla. Persino Dio o Gesù Cristo corrono il pericolo di essere trasformati in idoli quando l’uomo smette di riconoscerne l’alterità, e quindi la necessità di creare un rapporto con una realtà vivente, e li costringe in un ruolo passivo, di specchio nel quale autorappresentarsi, puri nomi. Idoli, appunto.
Grande spazio è dedicato alla profezia in sé, alla domanda sulla natura della profezia e sulla necessità della sua presenza per il progresso dell’uomo. Secondo Bruni il profeta non è colui che prevede il futuro, l’indovino, ma è chi riconosce appieno la propria vocazione di ascoltare ed esprimere la parola di Dio, chi ha la capacità di distinguere le voci dentro di sé, comprendendo qual è la propria e quale quella divina.
Per questo il dubbio costituisce una costante della sua vita: come si fa a essere sicuri di riconoscere la parola di Dio, di non inventarla, di non essere pazzo? Nella chiusura del libro, con un ribaltamento sorprendente Bruni comprende anche sé stesso e i lettori in questa dimensione di insicurezza “nessuno ci può garantire che Geremia e tutti gli altri profeti biblici non fossero soltanto degli auto ingannati come tutti gli altri falsi profeti, nevrotici convinti di ascoltare voci che non c’erano”.
Gli strumenti di cui l’uomo e la donna dispongono per uscire dal labirinto dell’incertezza e dello smarrimento sono la fede e – come ha sostenuto Hans Urs von Balthasar e viene ormai condiviso da molti – la capacità di percepire la bellezza, di riconoscere una vibrazione particolare presente nei testi sacri e nella tradizione della Chiesa che ci conferma nel loro alto spessore umano. E divino.
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