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Il fascicolo conta oltre 58mila pagine, ma la sentenza è stata pronunciata circa 72 ore dopo che lo stesso era stato consegnato ai giudici. A denunciarlo sono gli avvocati Nicola Quatrano e Raffaele Bizzarro, che hanno impugnato la sentenza pronunciata lo scorso 10 giugno dalla Corte d’Appello di Napoli, contestando la violazione delle regole fondamentali «della grammatica giudiziaria che disegnano la morfologia dell’esercizio della giurisdizione, producendo un atto abnorme in ragione della concreta atipicità di esercizio del potere che lo pone al di fuori della struttura legale tipica stabilita dall’ordinamento».
Il compendio probatorio, come evidenziato nel ricorso, conta 58.343 pagine, una mole immensa di documenti, come verificato direttamente dagli avvocati Quatrano e Bizzarro con richiesta di copia di tutti gli atti del procedimento. Un processo celebrato con il rito abbreviato, pertanto «non v’è un distinto fascicolo del dibattimento». Nel fascicolo - che riguarda i reati di associazione mafiosa, ricettazione e possesso di armi - sono contenute ampie parti del processo principale, compresa l’ordinanza di custodia cautelare, lunga 1632 pagine e le motivazioni delle sentenze di primo grado e appello.
«Anche a voler calcolare la cifra (pressocché impossibile) di 200 pagine al giorno, il relatore avrebbe avuto necessità di circa 293 giorni per leggere gli atti. Solo per leggere! Non parliamo di studiare», scrivono, increduli, i difensori nel ricorso. Che mettono in ordine le tempistiche di questo processo, per chiarire come i numeri non lascino spazio a dubbi: il procedimento, precedentemente assegnato ad un altro collegio, a seguito della dichiarazione di astensione del presidente è stato assegnato, il 4 giugno, ad un nuovo collegio, con udienza fissata il 6 giugno. comprese le ore normalmente dedicate al sonno. Solo la richiesta di replica del procuratore generale ha fatto slittare la decisione al 10 giugno, altra giornata ricca di udienze.
Insomma, in più o meno tre giorni, sabato e domenica compresi, il giudice avrebbe dovuto leggere quasi 60mila pagine per poter avere un’idea chiara del processo. Cioè circa 2.438 pagine all'ora, una circostanza chiaramente impossibile. Per tale motivo, secondo i legali, il collegio avrebbe pronunciato la decisione «senza conoscere gli atti processuali, che pure in sentenza ha citato e asseritamente valutato». Certo, non esiste nel codice di rito una norma che renda nulla la sentenza per tale motivo. Né, probabilmente, il legislatore ha mai lontanamente immaginato che ciò potesse avvenire.
«Tuttavia, la sentenza impugnata – che si presenta come una consapevole valutazione di prove ed argomenti – non è che l’atto conclusivo di un segmento procedimentale connotato da anomalie di tale importanza da escludere che si sia in presenza di un atto soltanto formalmente non corretto, bensì di un provvedimento abnorme», si legge nell’atto di impugnazione.
I legali citano l’articolo 124 cpp, che stabilisce l’osservanza delle norme processuali da parte dei magistrati e gli altri soggetti in essa indicati: «La violazione delle regole fondamentali della grammatica giudiziaria che disegnano la morfologia dell’esercizio della giurisdizione, anche là dove non riconducibili nell’alveo delle nullità di ordine generale o di nullità speciali, possano produrre un atto che, sebbene in astratto sia tipica espressione di esercizio della giurisdizione, si caratterizzi come “abnorme” in ragione della concreta atipicità di esercizio del potere che lo pone al di fuori della struttura legale tipica stabilita dall’ordinamento (...) Abnorme è l’atto che, anche là dove dotato di un tipico contenuto giudiziario, per vizi genetici, strutturali e funzionali si collochi non solo al di fuori delle singole norme ma anche dell’intero sistema organico della legge processuale».
I giudici, sottolineano i legali, decidono sulla base degli atti processuali «e non sulla base di pregiudizi o altro. Non avrebbero altrimenti senso le disposizioni dell’articolo 525, comma 1, cpp che definiscono i contenuti di una deliberazione da adottare in Camera di consiglio, subito dopo la chiusura del dibattimento, dallo stesso giudice che ha partecipato alla raccolta delle prove, o quelle disposte dall’articolo 527 cpp per le deliberazioni collegiali (...) La sentenza è, dunque, il prodotto di una deliberazione da adottare nelle forme e con le modalità descritte dalla legge processuale».
Insomma: pur essendo la sentenza «in astratto manifestazione di legittimo potere», la pronuncia sarebbe stata «esplicata al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite», dal momento che non è preceduta dallo «studio degli atti processuali». E ciò «dà origine ad un vizio che determina l’abnormità della sentenza».