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Il pm Colace
L’allora pm di Torino Gianfranco Colace «era pienamente consapevole dell’obiettivo investigativo perseguito intercettando l’utenza di Giulio Muttoni dopo il 3 agosto 2015 e quindi della natura indiretta delle intercettazioni delle conversazioni» con il senatore del Pd Stefano Esposito e «del conseguente divieto di loro utilizzazione». Una condotta, la sua, che integra l’illecito disciplinare della «grave violazione di legge determinata da negligenza o ignoranza inescusabile», tanto più grave in quanto relativa ad una norma costituzionale prevista a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza delle Camere e in quanto «segmento finale di un’azione pluriennale che appariva quasi ab origine improntata ad una volontà di aggiramento di tale disciplina».
Sono dure le motivazioni con le quali il Csm ha stabilito la perdita di anzianità di un anno e il trasferimento in altra sede, con funzioni civili, dell’ex pm Colace, punito, insieme alla gup Lucia Minutella, per le intercettazioni illecite – in totale 446 – a carico di Esposito, all’epoca senatore del Partito Democratico, indagato e accusato sulla base di captazioni non autorizzate, come stabilito dalla Corte costituzionale.
Stando all’articolata sentenza, Minutella – punita con la sola censura – era nelle condizioni di comprendere «ictu oculi, sulla base di un sommario esame del fascicolo» che le intercettazioni a carico dell’imprenditore Muttoni erano finalizzate a captare le conversazioni con Esposito.
Questione, peraltro, sollevata dalla difesa dell’ex senatore in udienza preliminare, ma non affrontata nel merito al momento del rinvio a giudizio. Ma le responsabilità maggiori sono per Colace. Se fino al 3 agosto 2015, secondo la Corte costituzionale, non era necessaria l’autorizzazione parlamentare, in quanto le intercettazioni potevano ancora essere considerate occasionali, a partire da quella data la polizia giudiziaria rimette gli atti alla procura segnalando la necessità di valutare se dai dialoghi tra i due emergessero «spunti investigativi meritevoli di approfondimento».
Il pm avrebbe dovuto, dunque, chiedere l’autorizzazione o, in alternativa, «immediatamente al gip la fissazione dell’udienza» per lo «stralcio» delle intercettazioni indirette, «ai fini della loro distruzione». Infondate, secondo la sentenza, sono le prospettazioni difensive, che in sede disciplinare hanno distinto tra semplice indicazione delle intercettazioni come fonti di prova nella richiesta di rinvio a giudizio e utilizzazione delle stesse.
Sulla base di tale teoria, la loro inutilizzabilità avrebbe dovuto essere stabilita in dibattimento, in sede di ammissione delle prove. Ma nel caso in questione ad essere violata è una normativa speciale, l’articolo 68 della Costituzione, «che presenta un proprio autonomo e prevalente contenuto precettivo». Le regole da seguire non sono, dunque, quelle generali del codice di procedura penale, ma, in primo luogo, quelle costituzionali e le norme attuative, «quale disciplina di rango superiore».
Le conversazioni intercettate tra Muttoni ed Esposito, afferma la sentenza, erano chiaramente indirette, quanto meno a partire dal 3 agosto 2015. Da quel momento è stato proprio l’ex senatore il focus dell’indagine, tanto da essere poi iscritto sul registro degli indagati. Il che richiedeva, necessariamente, un passaggio al Senato, che non c’è mai stato.
Quelle conversazioni, dunque, «non potevano in alcun modo essere valorizzate ai fini della richiesta del rinvio a giudizio, neppure, come avvenuto nel caso in esame, con la formula generica dell’indicazione onnicomprensiva di tutte le intercettazioni con riferimento a tutti gli imputati senza specifiche correlazioni, in quanto a monte il dottor Colace avrebbe dovuto promuovere il loro stralcio» per poi distruggerle in base alla legge 140/2003.
Minutella, dal canto suo, non avrebbe dovuto trattare la questione alla stregua di una normale richiesta di inutilizzabilità, rinviando al dibattimento, ma «disporre lo stralcio immediato» o investire il Senato della questione. Nulla di tutto ciò, però, è stato fatto, tanto che per il Csm la sua sarebbe stata una condotta connotata in termini di «evidente superficialità».
Per la sezione disciplinare, «le dimensioni assunte dalla vicenda anche in termini di clamore mediatico (...) assurgendo essa a caso paradigmatico a livello nazionale già prima che si pronunciasse la Corte Costituzionale in sede di conflitto di attribuzione sollevato dal Senato e, a maggior ragione, dopo la sentenza che ha rilevato con particolare nettezza la violazione della disciplina costituzionale in materia, rendono di tutta evidenza il grave pregiudizio arrecato all’immagine dei magistrati coinvolti e della giurisdizione torinese nella percezione dell’opinione pubblica».
La condotta illecita, infatti, ha comportato l’immissione in un «circuito processuale molto ampio, trattandosi di un processo con 35 imputati» di «oltre un centinaio di conversazioni in cui era parte il senatore Esposito indebitamente intercettate nel periodo del mandato parlamentare».
E il ricorso alla distinzione tra indicazione e utilizzazione delle intercettazioni come prova, ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo, «un escamotage per aggirare la disciplina». Un atteggiamento gravissimo per un pm.