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Gaza sotto le macerie
La devastazione della Striscia di Gaza, iniziata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, è oggi fotografata da numeri che descrivono un territorio quasi irriconoscibile. Un’analisi del Wall Street Journal basata su immagini satellitari delle Nazioni Unite mostra che oltre 123.000 edifici sono stati completamente distrutti dai bombardamenti israeliani, mentre altri 75.000 risultano gravemente danneggiati. L’81 per cento dell’intero patrimonio edilizio dell’enclave non esiste più.
Il volume dei detriti raggiunge i 62 milioni di tonnellate, una quantità pari a più di mille chilogrammi di macerie per ogni metro quadrato dell’isola di Manhattan. Tra i resti, oltre agli ordigni inesplosi, si troverebbero i corpi di circa diecimila persone, secondo le autorità sanitarie palestinesi, con rischi enormi per la salute pubblica.
Il processo di rimozione potrà accelerare solo se Israele autorizzerà l’ingresso di mezzi pesanti necessari anche alla bonifica degli ordigni. Un via libera che appare difficilmente ottenibile prima di un accordo sulla seconda fase del piano di pace promosso dal presidente statunitense Donald Trump, al momento in stallo. Intanto, nella Striscia la vita quotidiana dei due milioni di abitanti resta drammatica: la maggior parte vive in tende improvvisate, mentre l’inverno e le piogge aggravano ulteriormente condizioni già estreme.
Secondo Jaco Cilliers, responsabile dell’Undp nei Territori palestinesi, il quadro è chiaro: «Anche nello scenario più ottimistico la rimozione delle macerie richiederà almeno cinque, più probabilmente sette anni». I tempi dipendono tanto dai finanziamenti quanto dalla disponibilità israeliana a far entrare le attrezzature necessarie. Oggi a Gaza sono operativi appena nove escavatori, 67 pale gommate, 75 autocarri e un solo frantoio. L’ONU ritiene indispensabile portare almeno altri 120 autocarri, 80 pale gommate, 20 escavatori e nuovi frantoi per garantire un ritmo di lavoro sostenibile.
In questo contesto l’Undp ha iniziato a trattare circa 190.000 tonnellate di macerie, dando priorità al ripristino delle strade principali e degli accessi agli ospedali, ai panifici e alle scuole provvisorie. Sono già state riaperte 270 arterie interne, permettendo una maggiore mobilità nel cuore dell’enclave.
Le macerie raccolte vengono conferite in siti di riciclaggio: gli oggetti personali recuperabili vengono restituiti alle famiglie, mentre i materiali pericolosi come l’amianto o i metalli contaminati sono smaltiti separatamente. Il calcestruzzo frantumato è già impiegato per i riempimenti stradali e per strutture non portanti, come le basi di una nuova cucina da campo a Khan Younis. «Cerchiamo soluzioni innovative», ha spiegato Alessandro Mrakic, responsabile Undp a Gaza, sottolineando la pressione enorme a cui sono sottoposti i team sul campo.
Il tema dei costi resta cruciale. Gli appaltatori locali chiedono circa 21 euro per tonnellata di detriti rimossa, ma al momento non è chiaro chi sosterrà l’intera operazione. Gli Stati Uniti confidano in un contributo dei Paesi del Golfo, ma l’ONU stima l’intero processo di ricostruzione in circa 64 miliardi di euro. Un accordo tra i finanziatori non è stato ancora raggiunto.
Nel frattempo, la presenza di ordigni inesplosi rappresenta uno dei principali ostacoli. Gli esperti parlano di migliaia di residui bellici, spesso nascosti all’interno delle abitazioni. L’1-2 per cento degli ordigni esplosivi israeliani sganciati in più di due anni potrebbe non essere deflagrato, secondo una stima militare. L’Unmas, il Servizio ONU per l’azione contro le mine, non può intervenire perché non autorizzato a importare l’attrezzatura necessaria da oltre due anni. Senza bonifiche, la rimozione dei detriti è un’operazione che espone ogni giorno gli operatori a rischi gravissimi.


