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Esprimere le proprie idee in Russia, da diversi anni a questa parte, è diventato difficile e pericoloso. Ma anche difendere chi le proprie idee le esprime comporta rischi molto elevati. Lo sanno bene gli avvocati. Molti di loro hanno perso la vita per aver svolto il proprio lavoro. Tra questi Stanislav Markelov, ucciso all’età di trentaquattro anni nel centro di Mosca, in via Prechistenka, a pochi passi dalla cattedrale di Cristo Salvatore, il 19 gennaio 2009. Markelov era il difensore della famiglia di Elsa Kungaeva, una ragazza cecena seviziata e uccisa qualche anno prima. Per quell’omicidio venne accusato l'ex colonnello Yuri Budanov. Erano gli anni delle violenze in Cecenia, anni cupi per la Russia che nel 2006 aveva dovuto fare i conti con un altro omicidio eccellente, quello della giornalista Anna Politkovskaja del quotidiano Novaia Gazeta. Avvocati e giornalisti, due categorie che hanno continuato a pagare a caro prezzo il loro lavoro nell’«inafferrabile Russia», per usare l’espressione di un altro morto eccellente, Boris Nemtsov, ucciso nel 2015 sempre in pieno centro a Mosca. Con Markelov al momento dell’agguato si trovava Anastasia Baburova, brillante collaboratrice della Novaia Gazeta. I due avevano appena concluso una conferenza stampa per contestare il rilascio anticipato del colonnello Budanov, già condannato a dieci anni di carcere. Un uomo con il volto coperto da passamontagna raggiunse Markelov e gli sparò alla nuca senza lasciargli scampo per poi scappare. Baburova nel tentativo di inseguire il killer venne raggiunta da un proiettile alla testa, cadendo esanime in una pozza di sangue. L’assassino venne identificato qualche tempo dopo, nel 2009. A finire in carcere l’estremista nazionalista Nikita Tikhonov, appartenente al gruppo “Born”, condannato all'ergastolo il 6 maggio 2011. Nel duplice omicidio venne aiutato dalla fidanzata, Yevghenia Khasis, condannata a 18 anni di galera. I giudici individuarono un movente politico: punire Markelov per il lavoro svolto a sostegno degli attivisti antifascisti. Oltre all’attività legale, Markelov ha dato un contributo di idee scrivendo sulle pagine della Novaia Gazeta. Il suo argomento preferito riguardava la guerra sporca in Cecenia. Sin dall’inizio della sua carriera, il giovane avvocato volle dedicarsi ai crimini di guerra, agli attentati terroristici e alla difesa dei diritti umani. Proprio in relazione a questi ultimi ha lavorato per inchiodare alle loro responsabilità alcuni signori della guerra, come il colonello Budanov, mettendosi contro il famigerato Ramzan Kadyrov. Un altro processo delicato che lo ha visto protagonista è stato quello della strage del teatro Dubrovka. Alcuni estremisti ceceni sequestrarono nel 2002 quasi 900 persone nel teatro moscovita. L’intervento delle forze speciali russe, che usarono un agente chimico per fare irruzione, costò la vita a 168 persone tra ostaggi e combattenti provenienti dalla Cecenia. Prima di essere assassinato, Markelov è stato oggetto di aggressioni fisiche e verbali. Nell’aprile del 2004 alcuni uomini lo picchiarono nella metropolitana di Mosca, portandogli via i documenti di un importante caso giudiziario al quale stava lavorando. Le autorità hanno sempre abbozzato timidi tentativi per proteggere l’avvocato-giornalista, ma senza risultati significativi. La Russia di Putin e Medvedev aveva intrapreso una strada ben precisa: ricchezze infinite e previlegi per gli oligarchi, sacrifici per la popolazione con la compressione spropositata delle libertà civili e dei diritti fondamentali. Il nuovo capitalismo russo venne più volte criticato da Markelov con l’obiettivo di stimolare un dibattito in grado di dar vita ad una alternativa politica. Tutto fermato da una pallottola nella nuca il 19 gennaio di tredici anni fa. Molto probabilmente anche in questi giorni Stanislav Markelov avrebbe sostenuto la società russa; l’avrebbe aiutata a non sprofondare nel pessimismo e a battersi contro il “putinismo” infinito. A non rischiare di scomparire. A creare ponti non a distruggerli. In questo scenario le parole di Anna Politkovskaja, scritte nel suo “Diario russo 2003-2005”, assumono un peso ancora più rilevante: «I “pessimisti” dicono che nel 2016 saremo 128 milioni e 700mila. Che moriranno milioni di poveri privi di assistenza sanitaria, ora a pagamento. Che i giovani moriranno soldati. Perché nel nostro esercito si muore. Con o senza guerra, chi non sta dalla parte giusta verrà fatto fuori o spedito a marcire (morire) in galera. Per il momento non si vedono cambiamenti. Il potere rimane sordo a ogni “segnale d’allarme” che viene dall’esterno, dalla gente. Vive solo per se stesso. Con stampato in faccia il marchio dell’avidità e del fastidio che qualcuno possa ostacolare la sua voglia di arricchirsi. Lo scopo è far sì che nessuno glielo impedisca: la società civile va calpestata e la gente convinta giorno dopo giorno che opposizione e opinione pubblica si nutrono al piatto della Cia, dello spionaggio inglese, israeliano e finanche marziano, oltre che alla ragnatela globale di Al-Qaeda. Oggi come oggi il potere è solo un modo per far soldi. E basta. Del resto non ci si cura». Riflessioni di quasi vent’anni fa nella Russia di Putin. Nulla è cambiato fino ad oggi, ma forse il granitico potere che sta facendo sprofondare l’Europa in guerra inizia a scricchiolare. Gli avvocati e i giornalisti morti in questi anni, forse, con le loro battaglie hanno contribuito ad indebolire la roccaforte oligarchica.