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Fu suicidio. Anzi no, si trattò di istigazione al suicidio. Meglio ancora, furono i parenti a toglierlo di mezzo colpendolo alla testa e appiccando fuoco alla sua auto. È un incubo a gradazione variabile quello attraverso cui sono passati, negli ultimi undici anni, Caterina Gentile e Luciano Colloca, rispettivamente moglie e figlio di Nicola Colloca, l’uomo ritrovato cadavere all’interno della sua auto distrutta dalle fiamme nel settembre del 2010 a Maierato, piccolo centro in provincia di Vibo Valentia. Ora, dopo anni di calvario giudiziario, tracciati telefonici spariti, accuse incrociate, faide familiari e perizie in opposizione, le accuse contro i familiari della vittima (oltre a moglie e figlio nel processo celebrato con rito abbreviato condizionato davanti al tribunale di Vibo, ci sono altre cinque persone coinvolte a vario titolo nelle indagini) che di quella morte erano stati ritenuti ideatori ed esecutori, sono cadute. Non furono gli imputati ad organizzare e mettere in atto l’omicidio. Così ha stabilito il Gup che, accogliendo la richiesta della stessa Procura, ha assolto tutti e sette gli indagati con formula ampia «perché il fatto non sussiste»: Nicola Colloca, l’infermiere 48enne ritrovato morto nella pineta immersa nella costa degli Dei, non fu vittima di un complotto familiare ma, decise di porre fine alla sua esistenza in modo autonomo dandosi fuoco all’interno della sua automobile. Quando i carabinieri ritrovarono l’auto carbonizzata di Colloca all’interno della pineta di Maierato, le prima indagini, indirizzate dall’esame autoptico eseguito nelle immediatezze del ritrovamento, virarono verso l’ipotesi di suicidio. Secondo quella prima analisi redatta dal consulente della Procura Katiuscia Bisogni, non vi erano elementi tali da poter ipotizzare un omicidio. Con l’avanzare delle indagini però, viene fuori che Nicola Colloca era un uomo problematico inserito in un contesto familiare complicato. Descritto come estremamente parsimonioso, l’infermiere era riuscito a mettere da parte un gruzzoletto di quasi 200mila euro. E proprio quella montagna di denaro sarebbe stata, nell’ipotesi formulata dalla Procura che indaga per istigazione al suicidio, la scintilla che aveva messo in moto la macchina infernale che avrebbe portato alla morte dell’infermiere. L’incubo dei familiari comincia proprio in quei giorni, in seguito alla riesumazione del cadavere, disotterrato quattro anni dopo i fatti e oggetto di una nuova perizia. Le conclusioni elaborate dal professore Giovanni Arcudi, nuovo perito nominato dalla Procura, tracciano un quadro diverso. Sui resti di quello che era stato il cranio della vittima, c’è una frattura sospetta. Nicola Colloca, dicono le nuove indagini, sarebbe stato colpito alla testa con un oggetto pesante, trasportato all’interno della sua auto fino a quella pineta isolata a due passi dal mare e poi bruciato vivo. Una ricostruzione che vedeva gli stretti congiunti come i responsabili . Quando il Pm chiude le indagini nei confronti degli indagati siamo ormai nel 2017 e di anni dal ritrovamento del corpo ne sono già passati sette, l’ipotesi d’accusa è quindi cambiata da istigazione al suicidio a omicidio volontario con l’aggravante della premeditazione e distruzione di cadavere. Le nuove indagini avevano passato al tappeto la vita degli imputati e il quadro venuto fuori raccontava di una famiglia spaccata, di relazioni extraconiugali consolidate, di antipatie e attriti con la famiglia di origine della vittima. E poi quelle intercettazioni in cui gli stessi imputati, probabilmente consci di essere sotto controllo delle forze dell’ordine, rimescolano le carte, provando a confondere le acque ed allontanare i sospetti. Tutti tasselli che sembrano confermare il quadro indiziario ipotizzato dagli inquirenti. Ma le cose, però, sotto diversi punti di vista non tornano. A cominciare dalla nuova perizia disposta dal Tribunale che si riallaccia alla prima, contestata, autopsia ed esclude l’ipotesi dell’aggressione con annessa ferita al cranio. Colloca, dice il professore Tarsitano, è morto a causa di un arresto cardiaco causato dalle fiamme con cui si è dato fuoco. L’assenza di inneschi o detonatori dal luogo del delitto e la presenza di una bottiglietta che conteneva benzina rinvenuta nella carcassa dell’auto, cancellano gli ultimi dubbi facendo crollare il castello d’accusa. «Per l’assoluzione piena – dicono gli avvocati Guido Contestabile e Pietro Chiappalone – è stata necessaria un’incrollabile fiducia nella giustizia. Siamo soddisfatti per la fine di questo autentico calvario subito dai nostri assistiti che hanno affrontato questa drammatica esperienza giudiziaria con grande correttezza e dignità. Un calvario durato 11 anni e che si è concluso con l’unica decisione possibile».