Domani il Senato convertirà in legge un dl Rave che somiglia appena a quello varato in origine e che nella sua formulazione, nella sua parabola e nel suo approdo finale rivela una confusione e un pressapochismo che sono per il governo una minaccia molto più temibile degli attacchi di un'opposizione per il momento inconsistente. Nella sua formulazione iniziale il decreto era uno svarione costituzionale macroscopico e il solo fatto che il consiglio dei ministri non se ne sia resto conto è elemento che desta a ragion veduta preoccupazione. Sulla base di quel testo le norme punitive si sarebbero potute estendere smisuratamente, dalle occupazioni alle manifestazioni: la Corte costituzionale non avrebbe potuto graziarla. Il governo ha dovuto ingranare una vertiginosa retromarcia e chiarire che la stretta si limita agli «eventi musicali», risolvendo così un problema ma creandone un altro: perché tanto rigore proprio contro i raduni musicali di questo tipo, che oltretutto si contano su una mano sola, essendosi quest'anno svolti in Italia appena tre Rave illegali?

Dl rave, pene fino a sei anni di carcere

La norma inoltre puniva i partecipanti agli eventi musicali e non solo gli organizzatori e lo faceva comminando multe del tutto sproporzionate, sino a 25mila euro. Indietro tutta anche qui: i partecipanti ai rave non sono più punibili e per gli organizzatori la multa si ferma a 10mila euro. Eppure, anche in questa forma senza dubbio alleggerita, il decreto Rave resta un'aberrazione giuridica che difficilmente passerà il vaglio della Consulta, ancora più difficilmente sarà applicata e comunque rappresenterà per il governo Meloni una falsa partenza da manuale. Oltre al sequestro delle apparecchiature tecniche restano infatti le pene esorbitanti: sino a sei anni di carcere. Il governo ha già fatto filtrare la convinzione che una pena così esagerata, che non trova pari in nessun altro Paese, non sarà mai applicata ma serve a permettere le intercettazioni, che sarebbero proibite con una pena massima più lieve. La spiegazione suona però come la classica toppa peggiore del buco. Prima di tutto perché non dovrebbe essere neppure immaginabile che un governo stabilisca una pena massima contando sul fatto che “tanto poi i magistrati non la commineranno”. Non si vede infatti su quale base il potere esecutivo possa decidere o anche solo prevedere cosa farà, nella sua piena autonomia, quello giudiziario e comunque l'idea di fissare una pensa pensando che non verrà mai applicata rasenta il surreale. Ma anche il sotterfugio, fissare il tetto di pena per poter intercettare, denota massima confusione.

Il nodo delle intercettazioni

Il ministro della Giustizia ha appena promesso di limitare abusi e invadenza delle intercettazioni come strumento. Sembra di capire che nella logica del guardasigilli non si tratta, ovviamente, di sottrarre alle indagini uno strumento in molti casi effettivamente necessario e insostituibile ma di riconoscere che si tratta di uno strumento delicato, che va sì usato ma con oculatezza e non in base a fantasie pericolose di controllo totale. Solo che la decisione di rendere un reato punibile in modo abnorme proprio per poter sfruttare cimici e microfoni va in direzione opposta. In ogni caso si tratta infatti di un crimine minore, di pericolosità contenuta e diffusione limitata. Considerare necessarie le intercettazioni per l'organizzazione di pochi rave illegali ogni anno significa supporle necessarie sempre o quasi.

L'esame della Consulta e l'articolo 17 della Carta

Non è affatto certo, infine, che la legge esca indenne dal vaglio della Consulta. La Costituzione è infatti molto esplicita, all'art. 17, sulla libertà di riunione senza bisogno di preavviso salvo che nei luoghi pubblici, ma anche in questo caso il divieto può scattare solo in caso di «comprovati motivi di sicurezza». Nei rave si tratta invece di pericolo presunto e in questi casi la Corte è stata di solito rigida, ammettendo il pericolo presunto solo in presenza di rischi massimi. Il dl Rave è stato per il governo una partenza decisamente sbagliata, come è comprovato dalle stesse profonde modifiche che il governo ha dovuto apportare dopo la raffica di critiche. Se il decreto, pur modificato, dovesse essere abbattuto dalla Corte il capolavoro sarebbe completo.