L’appena scomparso Gerardo Bianco, fra tutti gli uomini politici che ho conosciuto e frequentato, è stato insieme il più semplice e il più colto, il più inflessibile nei propri convincimenti e insieme il più umano.

Lo conobbi in Transatlantico, a Montecitorio, presentatomi da Mario Segni all’inizio del fenomeno dei peones democristiani, insofferenti al gioco delle correnti e per niente timorosi di scontrarsi con pezzi grossi, da novanta, come Amintore Fanfani, Flaminio Piccoli, Antonio Gava, Ciriaco De Mita. Di quest’ultimo, leader della sinistra chiamata “Base”, almeno da Roma in giù, essendone al Nord il capo indiscusso Giovanni Marcora, Albertino per gli amici e i partigiani della Resistenza, Gerardo era stato a suo modo allievo nella comune Irpinia. Ma, come i migliori allievi, non succubo.

La rottura politica fra i due avvenne nel 1979, quando, consumatesi la tragedia di Aldo Moro e la stagione eccezionale della cosiddetta “solidarietà nazionale”, da non confondersi - come fanno ancora oggi in molti, anzi in troppi- col più complesso e organico “compromesso storico” perseguito da Enrico Berlinguer, i più giovani e valenti fra i parlamentari democristiani avvertirono la necessità di farla finita con quello stato di emergenza da cui si erano sentiti costretti anche nei rapporti gerarchici di corrente.

Nacque così all’interno del gruppo scudocrociato della Camera, all’inizio della legislatura nata dalle elezioni anticipate imposte dal ritorno del Pci all’opposizione dopo l’appoggio esterno a due governi monocolori di Giulio Andreotti, la candidatura di Gerardo a presidente. Ma su quella postazione aveva già messo gli occhi non tanto il segretario allora in carica del partito, un Benigno Zaccagnini ormai in uscita, quanto Ciriaco De Mita per promuovere Giovanni Galloni, pure lui basista.

Francesco Cossiga era tornato a frequentare Montecitorio, dopo le dimissioni da ministro dell’Interno, per l’epilogo drammatico del sequestro Moro, tenendo la contabilità - come lui stesso scherzava - della cosiddetta “area Zaccagnini”. Dalla quale ogni giorno, anzi ogni mezza giornata, toglieva qualcuno per mettervi qualche altro: un’attività, chiamiamola così, di controllo, arruolamento e quant’altro che di lì a poco, con la complicità di Sandro Pertini sul Colle, gli avrebbe procurato Palazzo Chigi. Cui sarebbero seguiti Palazzo Madama, cioè la presidenza del Senato, e infine il Quirinale.

In uno dei tanti aggiornamenti della lista dell’” area Zaccagnini” ebbi la possibilità di interloquire e di chiedere a Cossiga una previsione sull’esito della partita sul capogruppo. Partita? mi chiese lui beffardo. La vittoria l’aveva già in tasca Galloni. Ai miei dubbi Francesco mi sfidò a scommettere una cena. La vinsi, ma non la riscossi mai. In cambio mi guadagnai l’amicizia di Bianco, che vidi crescere sempre di più fuori e dentro la Dc. Dove contribuì alla ripresa dell’alleanza di governo con i socialisti: governo in uno quei quali - il sesto e penultimo di Andreotti - sarebbe entrato come ministro della Pubblica Istruzione sostituendo nel 1990 il collega di partito Sergio Mattarella. Che si era dimesso con altri della sinistra democristiana per protesta contro la disciplina finalmente legislativa dalla televisione privata. Non c’era ministero, francamente, che non fosse più adatto a uno come Bianco, indicato personalmente ad Andreotti dal segretario della Dc allora in carica: Arnaldo Forlani.

Diversamente dall’altra volta, quando fu eletto contro le indicazioni del vertice del partito, Gerardo tornò alla guida del gruppo democristiano della Camera all’inizio della legislatura uscita delle urne del 1992 su designazione del segretario, sempre Forlani. E vi sarebbe rimasto sino alla fine anticipata delle Camere, meno di due anni dopo, senza più Forlani segretario e bastian contrario rispetto ad un establishment rassegnato alla fine della cosiddetta prima Repubblica per via giudiziaria. Ma bastian contrario, felicemente, anche nella seconda, terza e quarta del breve conio grillino della legislatura scorsa.